Corriere della Sera

Il «Ponte di Brooklyn» che ha sempre fatto paura a chi doveva attraversa­rlo

- Dal nostro inviato a Genova Giampiero Timossi

Faceva paura a chi passava sopra e a chi abitava sotto. Per attraversa­rlo si schiacciav­a il piede sull’accelerato­re: meglio fare in fretta, magari sfidare l’autovelox che qualche anno fa era apparso anche su questo ponte. Due corsie verso Levante, due verso Ponente, 1.102 metri d’asfalto e cemento, sospeso tra il mare di Genova e le colline che fanno da confine alla Val Polcevera. A Genova lo chiamavano «il Ponte di Brooklyn». Vita, morte, paure e «miracoli» di tre piloni di cemento piantati tra le case di via Fillak e via Porro, le fabbriche, le officine e il greto asciutto del torrente Polcevera. Solo ieri mattina, quando

la «schiena» del gigante si è aperta, i genovesi hanno ricordato che il suo nome era un altro: Ponte Morandi. Perché a progettarl­o era stato Riccardo Morandi, l’«ingegnere del cemento armato». Di strutture simili ne aveva già realizzata una sul lago di Maracaibo, in Venezuela, e un’altra sullo Wadi el Kuf in Libia. Ponte Morandi, Viadotto Polcevera, Ponte di Brooklyn, tanti nomi e una costruzion­e iniziata dalla Società Italiana Condotte d’acqua nel 1963 e terminata nel 1967. L’opera venne completata il 31 luglio e inaugurata il 4 settembre 1967, alla presenza del presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat. Erano gli anni Sessanta, quelli dell’onda lunga del boom economico. «Genova risolve il problema del traffico», titolava la Domenica del Corriere. La città, per qualche anno, pensò di amare quel gigante grigio, che permetteva di raggiunger­e più in fretta il Ponente, l’aeroporto, la Francia. Certo, faceva paura a chi guidava in quel budello di asfalto e cemento a 56 metri di altezza. Ma quello era il modo più rapido per entrare e uscire dalla città. Chi andava a sbattere sul ponte e si salvava portava un ex voto alla Madonna della Guardia, al santuario che guarda la città dall’altro lato del monte Figogna. Erano gli anni Settanta quando il ponte di Brooklyn iniziò a far paura anche a chi ci abitava sotto, a chi lavorava ai piedi dei tre piloni che salivano per novanta metri, a chi doveva passare sotto quei diciotto metri di larghezza. Il vento che soffiava dal mare, i fumi delle fabbriche, i camion sempre più numerosi: forse anche questo contribuì ad aprire le prime crepe. Poi iniziarono i lavori di risanament­o. Un decennio dopo si iniziò a parlare di una soluzione alternativ­a, che a Genova chiamano «Gronda», pensando di paragonare il traffico all’acqua che cade sui tetti e viene convogliat­a nelle grondaie. I lavori non sono più finiti. Anche due notti fa c’era un cantiere: gli operai stavano svolgendo dei lavori struttural­i. «Cadevano pezzi di ponte ogni giorno», raccontano choccati i dipendenti di una società di distributo­ri per caffè. Ora quel che resta del ponte verrà abbattuto. Con più rabbia che rimpianti.

L’inaugurazi­one e i timori

L’opera venne inaugurata nel 1967 alla presenza del presidente Saragat Dagli anni Settanta iniziò a spaventare anche chi abitava sotto

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