GLI ERRORI DI ERDOGAN UNA LEZIONE PER L’ITALIA
S ebbene la situazione economica e finanziaria dell’italia e della Turchia siano molto diverse tra di loro, i due Paesi hanno un problema in comune: la necessità di finanziarsi sui mercati dei capitali. In Italia è soprattutto il settore pubblico ad aver bisogno di emettere titoli, per colmare il divario tra spesa ed entrate della pubblica amministrazione, mentre in Turchia è il settore privato che deve attrarre investimenti, in particolare dal resto del mondo, per compensare il disavanzo tra esportazioni e importazioni di beni e servizi. In entrambi i casi, i flussi di finanziamento dipendono in modo cruciale dall’azione di politica economica messa in atto dal governo, e da come questa azione viene percepita dagli investitori stessi.
In Turchia, le preoccupazioni degli investitori sull’orientamento della politica economica del governo Erdogan sono fortemente cresciute negli ultimi mesi, in particolare riguardo l’impegno di mantenere l’inflazione sotto controllo. La progressiva riduzione dell’indipendenza della banca centrale e la nomina del genero del presidente a ministro dell’economia hanno alimentato timori per la stabilità finanziaria e dei prezzi.
Gli investitori esteri hanno ridotto l’afflusso di capitale, mentre quelli turchi hanno diversificato i loro risparmi in titoli esteri. Ne è seguito un rapido deprezzamento della lira turca, che ha alimentato l’inflazione interna e indebolito le aziende e il sistema bancario, fortemente indebitati in valuta estera.
Il fatto più preoccupante, che ha fatto precipitare la situazione in questi ultimi giorni, è stata la reazione del governo turco di fronte a tali sviluppi. Invece di riconoscere la difficoltà della situazione interna, gli squilibri accumulati in passato, forse anche qualche errore nelle scelte delle persone e delle politiche attuate, e mettere in atto un piano di risanamento per ridare fiducia agli operatori, in particolare quelli presenti nel Paese, il presidente Erdogan ha scelto una strategia diametralmente opposta. Ha cercato un capro espiatorio esterno, e dato la colpa ai mercati finanziari,
d Timori
Ciò che spaventa di più gli operatori è l’ipotesi di introduzione di vincoli ai movimenti di capitale
alle banche, ai fondi speculativi, accusandoli di voler «attaccare» la Turchia, per indebolirla e metterla in ginocchio. Ha esortato i propri concittadini a reagire contro le forze esterne, chiedendo loro di acquistare la moneta turca e vendere dollari e euro. Questa strategia comunicativa sembra aver funzionato all’interno, e il consenso non è stato per ora intaccato, ma la moneta turca rimane fragile a fronte di una continua uscita di capitali. Il rischio, se non si arresta la crisi, è che si sfaldi anche il consenso interno.
La reazione di Erdogan ha in realtà aggravato il problema, perché ha contribuito ad accentuare le paure degli in- vestitori, di cui il Paese ha forte bisogno. Questi non avevano, e non hanno nessuna intenzione di attaccare la Turchia, come dimostra l’ampio flusso finanziario degli anni passati. Cercano semmai di difendersi dalle misure che il governo potrebbe prendere e che rischiano di mettere a repentaglio la stabilità del sistema.
Se c’è un fattore che tende a coagulare i comportamenti di migliaia di operatori è proprio il timore di misure come i controlli sui movimenti di capitale o di ulteriori riduzioni dei tassi d’interesse, che possono ridurre il valore dei risparmi e nel tempo danneggiare l’intero sistema economico. Le accuse agli investitori,
dSperanze
Si avvicina il momento della presentazione della legge di Bilancio: occorre ridurre l’incertezza
invece di intimorirli li ha spaventati, diffondendo la sfiducia.
La lezione, per l’italia, nelle settimane che precedono la presentazione della legge di Bilancio, sembrano evidenti. Far riferimento a eventuali «attacchi speculativi», da parte dei mercati finanziari, rischia di dare l’impressione di una mancata percezione dell’effettiva situazione economica e finanziaria del Paese, e far temere una reazione mirata più a trovare un capro espiatorio esterno che ad affrontare i timori dei risparmiatori, che in questo caso riguardano la sostenibilità del debito pubblico. Attribuire la responsabilità dello «spread» sui titoli di Stato italiani, rispetto agli altri Paesi, all’incompiutezza dell’unione monetaria o al presunto mancato sostegno da parte della Banca centrale europea, viene interpretato come una volontà di deviare l’attenzione dai veri problemi del Paese. Menzionare pubblicamente lo spettro di un imminente «cigno nero», o di una crisi provocata da altri, solleva dubbi sull’effettiva volontà di mettere in atto gli impegni presi.
Gli investitori, italiani e esteri, hanno in passato ampiamente finanziato il debito pubblico italiano, anche quando i rendimenti erano più bassi di quelli attuali, e sono probabilmente disposti a continuare a farlo, se non fosse per il timore di subire delle perdite. Sta ai responsabili di politica economica del Paese rassicurare, non solo a parole ma anche con azioni concrete, che tali timori non sono giustificati.
La coincidenza di una scadenza importante come quella della presentazione della legge di Bilancio, a metà ottobre, con la persistenza di forti incertezze sui principali parametri di tale legge, in particolare il livello del disavanzo pubblico e del debito pubblico rispetto al Prodotto lordo, rappresenta per chi è interessato a comprare titoli di Stato una fonte di grande incertezza.
Se all’avvicinarsi di tale data l’incertezza non si riduce, anzi viene accentuata da dichiarazioni pubbliche di senso opposto, la tendenza dei risparmiatori a proteggersi dai rischi non potrà che aumentare, e in parallelo l’onere del debito e i costi per il sistema economico.
Capire bene gli errori che stanno facendo gli altri può essere utile per evitarli.