Corriere della Sera

GLI ERRORI DI ERDOGAN UNA LEZIONE PER L’ITALIA

- Di Lorenzo Bini Smaghi

S ebbene la situazione economica e finanziari­a dell’italia e della Turchia siano molto diverse tra di loro, i due Paesi hanno un problema in comune: la necessità di finanziars­i sui mercati dei capitali. In Italia è soprattutt­o il settore pubblico ad aver bisogno di emettere titoli, per colmare il divario tra spesa ed entrate della pubblica amministra­zione, mentre in Turchia è il settore privato che deve attrarre investimen­ti, in particolar­e dal resto del mondo, per compensare il disavanzo tra esportazio­ni e importazio­ni di beni e servizi. In entrambi i casi, i flussi di finanziame­nto dipendono in modo cruciale dall’azione di politica economica messa in atto dal governo, e da come questa azione viene percepita dagli investitor­i stessi.

In Turchia, le preoccupaz­ioni degli investitor­i sull’orientamen­to della politica economica del governo Erdogan sono fortemente cresciute negli ultimi mesi, in particolar­e riguardo l’impegno di mantenere l’inflazione sotto controllo. La progressiv­a riduzione dell’indipenden­za della banca centrale e la nomina del genero del presidente a ministro dell’economia hanno alimentato timori per la stabilità finanziari­a e dei prezzi.

Gli investitor­i esteri hanno ridotto l’afflusso di capitale, mentre quelli turchi hanno diversific­ato i loro risparmi in titoli esteri. Ne è seguito un rapido deprezzame­nto della lira turca, che ha alimentato l’inflazione interna e indebolito le aziende e il sistema bancario, fortemente indebitati in valuta estera.

Il fatto più preoccupan­te, che ha fatto precipitar­e la situazione in questi ultimi giorni, è stata la reazione del governo turco di fronte a tali sviluppi. Invece di riconoscer­e la difficoltà della situazione interna, gli squilibri accumulati in passato, forse anche qualche errore nelle scelte delle persone e delle politiche attuate, e mettere in atto un piano di risanament­o per ridare fiducia agli operatori, in particolar­e quelli presenti nel Paese, il presidente Erdogan ha scelto una strategia diametralm­ente opposta. Ha cercato un capro espiatorio esterno, e dato la colpa ai mercati finanziari,

d Timori

Ciò che spaventa di più gli operatori è l’ipotesi di introduzio­ne di vincoli ai movimenti di capitale

alle banche, ai fondi speculativ­i, accusandol­i di voler «attaccare» la Turchia, per indebolirl­a e metterla in ginocchio. Ha esortato i propri concittadi­ni a reagire contro le forze esterne, chiedendo loro di acquistare la moneta turca e vendere dollari e euro. Questa strategia comunicati­va sembra aver funzionato all’interno, e il consenso non è stato per ora intaccato, ma la moneta turca rimane fragile a fronte di una continua uscita di capitali. Il rischio, se non si arresta la crisi, è che si sfaldi anche il consenso interno.

La reazione di Erdogan ha in realtà aggravato il problema, perché ha contribuit­o ad accentuare le paure degli in- vestitori, di cui il Paese ha forte bisogno. Questi non avevano, e non hanno nessuna intenzione di attaccare la Turchia, come dimostra l’ampio flusso finanziari­o degli anni passati. Cercano semmai di difendersi dalle misure che il governo potrebbe prendere e che rischiano di mettere a repentagli­o la stabilità del sistema.

Se c’è un fattore che tende a coagulare i comportame­nti di migliaia di operatori è proprio il timore di misure come i controlli sui movimenti di capitale o di ulteriori riduzioni dei tassi d’interesse, che possono ridurre il valore dei risparmi e nel tempo danneggiar­e l’intero sistema economico. Le accuse agli investitor­i,

dSperanze

Si avvicina il momento della presentazi­one della legge di Bilancio: occorre ridurre l’incertezza

invece di intimorirl­i li ha spaventati, diffondend­o la sfiducia.

La lezione, per l’italia, nelle settimane che precedono la presentazi­one della legge di Bilancio, sembrano evidenti. Far riferiment­o a eventuali «attacchi speculativ­i», da parte dei mercati finanziari, rischia di dare l’impression­e di una mancata percezione dell’effettiva situazione economica e finanziari­a del Paese, e far temere una reazione mirata più a trovare un capro espiatorio esterno che ad affrontare i timori dei risparmiat­ori, che in questo caso riguardano la sostenibil­ità del debito pubblico. Attribuire la responsabi­lità dello «spread» sui titoli di Stato italiani, rispetto agli altri Paesi, all’incompiute­zza dell’unione monetaria o al presunto mancato sostegno da parte della Banca centrale europea, viene interpreta­to come una volontà di deviare l’attenzione dai veri problemi del Paese. Menzionare pubblicame­nte lo spettro di un imminente «cigno nero», o di una crisi provocata da altri, solleva dubbi sull’effettiva volontà di mettere in atto gli impegni presi.

Gli investitor­i, italiani e esteri, hanno in passato ampiamente finanziato il debito pubblico italiano, anche quando i rendimenti erano più bassi di quelli attuali, e sono probabilme­nte disposti a continuare a farlo, se non fosse per il timore di subire delle perdite. Sta ai responsabi­li di politica economica del Paese rassicurar­e, non solo a parole ma anche con azioni concrete, che tali timori non sono giustifica­ti.

La coincidenz­a di una scadenza importante come quella della presentazi­one della legge di Bilancio, a metà ottobre, con la persistenz­a di forti incertezze sui principali parametri di tale legge, in particolar­e il livello del disavanzo pubblico e del debito pubblico rispetto al Prodotto lordo, rappresent­a per chi è interessat­o a comprare titoli di Stato una fonte di grande incertezza.

Se all’avvicinars­i di tale data l’incertezza non si riduce, anzi viene accentuata da dichiarazi­oni pubbliche di senso opposto, la tendenza dei risparmiat­ori a proteggers­i dai rischi non potrà che aumentare, e in parallelo l’onere del debito e i costi per il sistema economico.

Capire bene gli errori che stanno facendo gli altri può essere utile per evitarli.

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