Corriere della Sera

Gli «ospiti noti» che invecchian­o nell’ambasciata di Addis Abeba

- di Gian Antonio Stella

S ono passati 27 anni da quando l’ambasciata italiana ad Addis Abeba concesse l’ospitalità «per pochi giorni» (così si sperava) ad alcuni complici del «Negus Rosso» Menghistu in fuga dopo la caduta del dittatore e la presa del potere da parte dei ribelli del Tigrai People Liberation Front. Ventisette anni di trattative, di carteggi epistolari, di processi, di faticose ricerche di un compromess­o… Tutto inutile.

L’ex capo di Stato Maggiore Addis Tedla e l’ex ministro degli Esteri e ideologo del regime marxista-leninista Berhanu Bayeh, esponenti di rilievo del sanguinari­o regime del despota rifugiato da allora nello Zimbabwe, sono ancora lì, ospiti della foresteria della nostra rappresent­anza diplomatic­a su una delle colline della capitale etiope, nel quartiere di Bella/kebenna.

Quando la notte del 27 marzo ’91 riuscirono a rifugiarsi nel nostro compound diplomatic­o temendo di essere giustiziat­i dal governo entrante guidato da Meles Zenawi, Tedla aveva 46 anni, Bayeh 55. Adesso sono due vecchi. Malati. Rassegnati a morire là, nelle due camere con bagno e cucina in comune del parco nel quale son liberi di fare a orari fissi qualche passeggiat­a e insieme prigionier­i, come agli «arresti domiciliar­i», assediati dai soldati etiopi che, se avessero potuto, li avrebbero sbattuti in galera tanto ma tanto tempo fa.

Una storia paradossal­e. Raccontata da Giuseppe Mistretta, ambasciato­re in Etiopia dal 2014 al 2017, e da un suo giovane collega, Giuliano Fragnito, in un libro edito da Greco&greco. Si intitola «I noti ospiti» e senza fare sconti racconta tutta la vicenda, a partire dalla rivolta contro l’imperatore Hailé Selassie e dal «Terrore Rosso» rivoluzion­ario. Un bagno di sangue. «Non è possibile quantifica­re il numero delle vittime», scrivono gli autori, «Amnesty Internatio­nal le ha stimate in circa 500.000».

Va da sé che quando otto complici di quel regime chiesero asilo, il nostro ambasciato­re di allora Sergio Angeletti si ritrovò tra le mani una patata bollente della quale avrebbe volentieri fatto a meno. Erano indifendib­ili, quegli otto. Ma nello stesso tempo era impossibil­e, senza violar le nostre leggi, consegnarl­i al regime nuovo: in Etiopia c’era (e c’è) la pena di morte.

E a questo nodo insuperabi­le si sono attaccati per tre decenni quelli che nelle corrispond­enze vengono definiti «I noti ospiti». Ridotti via via a due dalla decisione di quattro imputati di consegnars­i alla giustizia etiope, da quella di un quinto di uccidersi e infine dalla morte (contestata) d’un sesto.

I due rimasti, decisi a chiedere un lasciapass­are per rifugiarsi all’estero o a rimanere «ospiti» a carico nostro, non vogliono saperne di consegnars­i neppure dopo aver avuto la certezza che no, non saranno mandati a morte. E restano lì, sospesi, a invecchiar­e nel limbo come personaggi di Gabriel Garcia Márquez.

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