La caduta della rupia, perché l’india ora teme il contagio
La lira turca recupera, ma sotto i riflettori finisce l’india, dove la rupia ieri ha toccato il minimo storico sul dollaro, scendendo fino a quota 70,9, per poi recuperare leggermente e chiudere a 69,89. Settanta dollari per un dollaro sono una soglia psicologica significativa per l’economia indiana, ma anche un segnale per il resto del mondo.
La caduta della rupia alimenta infatti i timori che la crisi di Ankara possa contagiare altre economie emergenti, soprattutto quelle più fragili, dal Messico all’argentina, dal Brasile al Sud Africa, dalla Russia all’india. Con probabili scosse sui mercati di tutto il pianeta, come la debacle turca ha mostrato nei giorni scorsi, dopo che la lira ha perso il 13,8% venerdì e il 6,3% lunedì rispetto al dollaro. New Delhi preoccupa gli investitori perché il suo deficit commerciale a luglio è salito a 18 miliardi di dollari, ai massimi da oltre 5 anni, rispetto ai 16,6 miliardi di giugno, ha reso noto ieri il governo. Un aumento legato soprattutto al rincaro dei prezzi del petrolio, di cui il Paese è un forte importatore.
È vero che l’indebolimento della rupia favorisce l’export, rendendo più competitivi i prodotti indiani, come ha sottolineato l’imprenditore Anand Mahindra, presidente esecutivo del gruppo Mahindra (che in Italia controlla Pinifarina), in un tweet in cui invitava ad applaudire alla svalutazione per rilanciare «il Make in India». Ma al contempo una valuta debole rende più care le importazioni, e favorisce quindi il rischio di un aumento dell’inflazione, che a luglio era del 4,17%, in calo rispetto al 4,9% di giugno, ma con stime che già la proiettano al 5% nel primo trimestre del 2019. Il problema è che per finanziare il rincaro del greggio, un Paese come l’india, che importa oltre l’80% del suo fabbisogno energetico, ha necessità di forti
Il deficit commerciale
New Delhi preoccupa gli investitori perché il suo deficit commerciale a luglio è salito a 18 miliardi di dollari, ai massimi da oltre 5 anni
afflussi di capitali esteri. Il rialzo dei tassi di interesse in America e il rafforzamento del dollaro, però, spinge gli investitori a uscire dai mercati emergenti più rischiosi.
In questo scenario delicato si inserisce la crisi turca, irrisolta a dispetto della tregua di ieri che ha permesso alla lira di recuperare il 6%. Il presidente Recep Tayyip Erdogan mostra i muscoli e dopo aver accusato gli Stati Uniti di aver tradito e pugnalato alle spalle un alleato Nato, ieri ha invitato a boicottare l’elettronica made in Usa, a cominciare dai prodotti Apple. Ma non vuole che la Banca centrale alzi i tassi, necessario per sostenere la valuta, temendo un contraccolpo politico in caso di un rallentamento dell’economia.