Joseph Roth e le notti viennesi L’amore alla fine dell’impero
Il crepuscolo dell’austria-ungheria ne «Il mercante di coralli» (Adelphi). Dove il desiderio è l’unico antidoto alla paura
Al Prater, lo storico parco viennese coi suoi lunghi viali ombrosi e le panchine dalle quali, la notte, si sente l’orchestrina del ristorante; ma anche nei parchi delle cittadine di provincia, quando cala il crepuscolo e si schiude il profumo inebriante dei tigli; nei cinema; nei piccoli paesi sperduti nelle valli, dove passa un treno al giorno; nelle modeste stanze delle pensioni a ore: ovunque, nei luoghi che fanno da sfondo ai bellissimi racconti di Joseph Roth, ripubblicati da Adelphi dopo molti anni nelle traduzioni di Laura Terreni e Chiara Colli Staude col titolo Il mercante di coralli, s’annidano le occasioni d’amore.
Lo sterminato Impero austro-ungarico è ormai al suo declino, i soldati sono al fronte della Grande guerra e se tornano per una licenza, o perché hanno perso un braccio, stentano a riconoscere la casa in cui hanno vissuto. Chi resta, continua la sua vita «normale». Gli avvocati non smettono di lavorare e di essere arroganti con le impiegate e cerimoniosi con le nobildonne; le mogli sole, dentro casa, tremano a ogni squillo del campanello, perché a quello squillo potrebbe seguire l’apparizione agognata di un reduce o la consegna di una cartolina con un nome, un cognome e due date; le ragazze fanno le segretarie, le commesse, le cameriere negli alberghi, tremando al pensiero di perdere l’impiego; le locande sono affollate di uomini che discutono, si accapigliano, e bevono grandi boccali di birra schiumosa, o il leggero vino bianco prodotto sulle colline di Grinzig; nelle vetrine delle pasticcerie sono esposte le Linzer e le Sacher; gli ufficiali della riserva si mostrano in uniforme; e i treni passano nelle stazioni odorose di carbone e di legname, i tram corrono nei viali di Vienna. Ma se, in fondo al cuore, non c’è chi non avverta un’angosciosa sensazione di spaesamento, una malinconia inesprimibile, la paura dell’ignoto e della fine, a quale appiglio possono aggrapparsi per cercare di sopravvivere i cittadini dell’impero moribondo, se non all’amore: a quel sentimento che per alcuni rimane identico a prima, gioioso, impudente, volubile, mentre per altri è soltanto sognato, o come racchiuso in un guscio duro?
Fini, la protagonista dello Specchio cieco, è una ragazza minuta; lavora come segretaria e portalettere nello studio di un avvocato che la fa tremare; suo padre è in guerra; la madre, nella casa umile in cui vivono, al risveglio l’abbraccia, facendole sentire l’odore — che lei non sopporta — del sonno. Un pomeriggio è seduta su una panchina del Prater: un velo verde pallido si posa su uomini, carrozzine, sassi e panche. Ogni cosa visibile si stempera in un’altra. Fini sente, dentro di sé, un deliquio, simile a una melodia, o a un martellio sotterraneo della pelle, che non ha mai conosciuto. Quando arriva a casa, scopre di essere diventata una donna. Un giorno, incontra un pittore, Ernst, ben più grande di lei. Lui le mostra dei disegni, glieli regala e lei li nasconde. Poi, una sera, vanno al parco: oscuro. Nel braccio che la sostiene, Fini avverte un qualcosa di animalesco.
Ora, tutta la città, imperiale e borghese, è un invito. Dappertutto, i due si abbracciano. Poi — Roth non ci dice perché — Ernst scompare. Al suo posto, appare un altro pretendente. Si chiama Ludwig, suona con scarso successo il violino ed è amatissimo da tutte le ragazze: basta un cenno e loro cadono ai suoi piedi. Capita anche a Fini. Che errore! Il seduttore si rivela ben presto un mezzo cialtrone piagnucoloso. Lui vorrebbe sposarla; lei è perplessa. Nel frattempo, dalla guerra che ormai è finita, è tornato suo padre: un fantasma; sordo per gli scoppi delle granate.
Ogni tanto Fini apre la scatola di latta
Angoscia
I soldati sono al fronte. Chi resta continua la sua vita «normale». Pervaso dalla paura e da una malinconia indescrivibile
nella quale ha conservato i disegni di Ernst e scoppia a piangere. Poi, un pomeriggio, in una piazza molto animata, ascolta un oratore, Rabold, che parla di politica. Rabold è un perseguitato. I due fuggono insieme. Girano l’austria fermandosi dove trovano un rifugio sicuro. Intanto è caduta la neve. L’inverno è duro. Talvolta, per settimane, Fini rimane sola. Finché un giorno riceve una lettera e dei soldi. Quindi, più nulla. E il tempo trascorre. Così, una mattina, Fini va sulle rive del Danubio. Le onde non sono quelle che richiamano le tenerezze obliose dei valzer: sono nere, e c’è nebbia. A un tratto, sulla sponda opposta, Fini crede di scorgere un altro uomo. Allora, lentamente, scende in acqua.
Non molto lontano di lì, in un piccolo villaggio, vive il capostazione Fallmerayer, protagonista dell’omonimo racconto. Adam abita con sua moglie, una donna che ha perduto ogni attrattiva, sopra la stazione. I treni passano, ma lui non è mai stato da nessuna parte, neppure a Bolzano. Un giorno, a pochi metri dalla stazione, un direttissimo deraglia. Adam Fallmerayer corre in soccorso. Ci sono morti e feriti. A un tratto, riversa sui binari, vede una donna bellissima, ancora viva, avvolta in una pelliccia grigio argento. È la contessa russa Walewska, in viaggio da Kiev a Merano. Insieme alle sue valigie di cuoio bulgaro, il capostazione la trasferisce in casa, le cede il letto matrimoniale e, presto, se ne innamora. Meriterebbe molto più spazio l’amore di questo capostazione col cappello a visiera fasciato di rosso che all’improvviso vede spalancarsi una luce. Ma passa una settimana, la linea ferroviaria è ripristinata e la contessa se ne a va a raggiungere il marito a Merano, lasciando un indirizzo, una immensa nostalgia e il profumo del cuoio bulgaro. Senonché, scoppia la guerra.
Adam è arruolato e va a finire, con la sua guarnigione, proprio nelle vicinanze di Kiev: dove la contessa dimora — sola, perché pure il marito è in guerra — in una splendida proprietà di campagna. Adam la ritrova e scoppia la passione. Senonché, il mondo sul quale galleggiano questi esseri sconosciuti, continua ad agitarsi. Adesso, in Russia, ci sono i bolscevichi che combattono contro i bianchi. La contessa deve scappare. E con Adam fugge a Montecarlo: dove ha una bella villa. Adam ha chiuso col passato. È felice. Poi, un giorno, il conte, vale a dire il marito della contessa, riappare. Non era disperso. E se il padre di Fini è un fantasma, lui è un cadavere. Tant’è che i due potrebbero continuare tranquillamente a spendere la propria felicità. Invece, il giorno dopo quest’arrivo, senza alcuna ragione apparente, il capostazione se ne va nel nulla. E, in tal modo, nel nulla, si specchiano i due racconti più significativi del Mercante di coralli: quelli più fortemente stretti fra gli enigmi della fine e del desiderio.
Via d’uscita
L’appiglio a cui aggrapparsi per sopravvivere è l’amore, quel sentimento che per alcuni rimane identico a prima