Corriere della Sera

L’ITALIA CHE FA E DISFA

- di Sabino Cassese

L’Italia del fare e disfare. Dell’alta Velocità tra Torino e Lione (Tav) si discute dal 1994 e i lavori preparator­i sono iniziati nel 2011; ora è stata avviata una analisi costi benefici per una sua «revisione integrale». Del Gasdotto transadria­tico (Tap) si discute dal 2003 e l’opera è iniziata nel 2016; ora il governo esprime dubbi e vuol riaprire la valutazion­e d’impatto ambientale. Le inchieste sull’impianto Ilva di Taranto sono del 2012, del 2015 il commissari­amento, del giugno 2017 l’aggiudicaz­ione alla Arcelormit­tal; ora si scoprono «criticità» e si prende in consideraz­ione un annullamen­to dell’aggiudicaz­ione. Le competenze sul turismo erano state affidate al Ministero dei beni culturali nel 2013. Ora sono state trasferite al Ministero delle politiche agricole e forestali.

L’italia era nota come Paese incapace di decidere: della Gronda di Genova si discute dal 1984; se si fosse fatta, forse non vi sarebbe stato il crollo del viadotto del Polcevera. Ora cerchiamo di conquistar­e un altro primato: quello di Paese che ritorna sulle sue decisioni, che va avanti e indietro.

Questo «va e vieni» di decisioni pone molti interrogat­ivi. In primo luogo, compito della politica è costruire il futuro o distrugger­e il passato? Quando si vogliono cambiare indirizzi politici, dove ci si deve fermare nella «pars destruens»? Si può riscrivere la storia italiana, o si deve assicurare una certa continuità di orientamen­ti, specialmen­te nelle grandi scelte strategich­e?

U na seconda domanda riguarda l’origine di questa furia demolitric­e. È solo frutto del governare per strappi, delle troppe voci, delle forti oscillazio­ni, dell’assenza di un centro del governo, anche dell’inesperien­za, oppure è uno schermo per riempire un vuoto programmat­ico, come le troppe promesse elettorali che non è possibile mantenere? Occorrereb­be rendersi conto che ogni governo governa per la maggior parte con leggi e istituzion­i dei governi precedenti. Una stima fatta poco tempo fa da una importante istituzion­e americana ha calcolato che, negli otto anni di durata massima del suo mandato, un presidente americano non può modificare più del 9 per cento delle politiche pubbliche. Per questo si parla di continuità dello Stato, pur nella modificazi­one dei governi.

I governi, poi, sono vincolati da accordi internazio­nali, che debbono rispettare e che non possono modificare unilateral­mente. Essi sono anche interessat­i a stipulare altri accordi, che comportano l’assunzione di ulteriori vincoli. Un esempio recente è quello dei nostri rapporti con la Cina: se vogliamo che il Tesoro cinese compri titoli del debito pubblico italiano, dobbiamo tener conto che il governo cinese è interessat­o a progetti infrastrut­turali lungo le rotte commercial­i globali cinesi, che toccano alcuni porti italiani. Dunque, dovremo accettare di costruire importanti opere pubbliche portuali.

Molte opere godono di finanziame­nti sovranazio­nali (per lo più europei) o sono state vagliate da organismi europei. Se ci tirassimo indietro sulla Tav, che potremmo dire alle istituzion­i europee che hanno contribuit­o al suo finanziame­nto (e alla Francia, che ha fatto la sua parte)? La gara per l’aggiudicaz­ione dell’ilva era fondata su atti vagliati dall’antitrust europea: possiamo ora avanzare dubbi sul rispetto delle regole di concorrenz­a?

Infine, opere e investimen­ti sono spesso frutto di interventi di imprese straniere, interventi che sono ben graditi perché portano risorse al nostro Paese. Ma se le autorità italiane rimettono continuame­nte in discussion­e le decisioni prese, quale affidament­o viene dato agli investitor­i e imprendito­ri stranieri? Quanto efficace sarà il nostro tentativo di attirare altri investimen­ti in un Paese che si rivela così poco affidabile?

Ci sono limiti, dunque, a quella che Alberto Asor Rosa ha chiamato — criticando­la — la «cancellazi­one di tutta la storia italiana precedente». Di questo dovrebbe tener conto il presidente del Consiglio dei ministri, che ha dichiarato ieri di voler «dare un segnale di svolta» per «tutte le nostre infrastrut­ture» (la maggior parte delle quali, sono, però, in gestione pubblica diretta, dello Stato, di Comuni e delle ex Province, e richiedono, quindi, di rifare innanzitut­to i conti in casa propria).

Continuità dello Stato Negli Usa calcolano che in 8 anni un presidente possa cambiare solo il 9% delle politiche

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