Sul camion nella città spezzata Due ore per 40 minuti di strada
Dal centro al porto e ritorno, passando per Levante «Senza quel ponte gli ingorghi saranno inevitabili»
GENOVA Nel suo pauroso crollo il ponte Morandi ha ingoiato anche un carico di acqua minerale. Migliaia di bottiglie, sbucate da un camion e cadute per 70 metri in un tappeto di plastica trasparente. Quel carico era probabilmente diretto a Voltri, uno dei più grandi porti del Mediterraneo. Inforcato il casello di Genova Pra, il tir che le trasportava avrebbe raggiunto il terminal in un amen. Quindici chilometri circa, da Levante a Ponente, in meno di venti minuti (traffico permettendo). Quaranta circa, a farla avanti e indietro.
Oggi la città è spezzata. E le sue due metà si guardano dalle lingue di cemento sospese a mezz’aria sul Polcevera. Il ponte Morandi scorrazzava merci e persone passando a volo d’angelo sul centro genovese. Oggi chi viaggia per queste strade ritorna alla rete viaria di 50 anni fa, scontando però la pena del traffico odierno. Un inferno, che moltiplica a dismisura il tempo necessario per completare un trasporto. «Sui vari terminal genovesi — spiega Luigi Merlo, presidente di Federlogistica — gravitano circa quattromila mezzi pesanti al giorno. Genova movimenta 2,5 milioni di container, nove su dieci viaggiano su gomma».
All’ombra di ciò che resta del ponte di cemento sorge un parcheggio. Furgoni e camion sono allineati. E il caso vuole che sia proprio un tir carico d’acqua a offrirci un passaggio verso Voltri. Un viaggio con le telecamere di Corriere Tv per sperimentare gli enormi disagi che gli autotrasportatori sono costretti a subire, e che certo aumenteranno a settembre, con l’apertura delle scuole. Al volante c’è Giacomo Ugolini, un esperto autista del Gruppo Spinelli, mille viaggi al giorno e 70 treni a settimana: «Tutte le vie del quartiere che intersecano il ponte sono chiuse per il rischio di ulteriori crolli — ci avverte —. Altre sono limitate al traffico per i mezzi pesanti. La strada così si allunga, perderemo un sacco di tempo». Il camion disegna una serpentina che ci porta fino a Sampierdarena, e poi di nuovo verso ovest, sull’aurelia. Ci sono rallentamenti, soprattutto agli incroci, perché come un imbuto quasi tutti i veicoli che prima correvano sull’a10 finiscono qui, in coda sulla vecchia strada romana. «Ma l’andata è una passeggiata — aggiunge il nostro Caronte autostradale —. Vedrete il ritorno». Imbocchiamo il casello di Genova Aeroporto, poi dritti filati fino a Pra. Scarichiamo la nostra preziosa acqua con le bollicine, e poi via, di nuovo sull’autostrada. «Ed eccoci», sorride l’autista, mostrando la fila lunga un paio di chilometri: «Prima avremmo proseguito sul ponte che sbuca dopo quel tunnel, ora siamo costretti a lasciare l’autostrada. E con noi tutti gli altri, l’ingorgo è inevitabile».
In città le auto sbarcate dalle navi turistiche si confondono a quelle dei primi genovesi di ritorno dalle ferie. E ovunque furgoni, camion, tir. A fatica, tra semafori e incolonnamenti, arriviamo al Porto antico. Il nostro punto d’arrivo. E caricato un nuovo container, ci avviamo verso l’altra metà di Genova. A quest’ora la città ribolle: «Una volta avrei ripreso l’autostrada». Mentre si accoda all’ennesimo semaforo, Giacomo cede all’arsura del mezzogiorno. Con una mano sul volante e l’altra su una bottiglietta, butta giù un sorso d’acqua, tutto quel che resta del nostro ultimo viaggio.