La scomparsa di Gifuni «ministro» del Colle con Scalfaro e Ciampi
Ai più il suo nome dirà poco o niente. Ma chi ha vissuto il passaggio a tratti drammatico tra Prima e Seconda Repubblica, sa che Gaetano Gifuni, scomparso ieri a Roma all’età di 86 anni, è stato uno degli uomini cruciali della transizione italiana. Un’eminenza non grigia, di più: invisibile. Eppure, come segretario generale del Quirinale, prima con Oscar Luigi Scalfaro, poi con Carlo Azeglio Ciampi, ha rappresentato la continuità istituzionale della Presidenza della Repubblica: un punto fermo, competente, temuto, dell’incrocio strategico di ogni vero potere italiano.
Aveva fama di uomo cauto: al punto che, ricordava con civetteria, il padre lo aveva soprannominato Prudenziano. Ma era la prudenza del mediatore, determinato a risolvere i problemi prima che esplodessero; consigliere attento e capace dei capi dello Stato, come per diciassette anni lo era stato per i presidenti del Senato. Non a caso è rimasto al Quirinale quattordici anni come referente sia di Scalfaro che di Ciampi, consapevoli di avere in quel fuoriclasse, conoscitore delle leggi e della macchina dello Stato, un collaboratore prezioso.
Se è vero quanto sosteneva Francesco Cossiga, che in Italia i presidenti della Repubblica sono, nel loro settennato, una sorta di «re a tempo», ebbene Gifuni era una specie di repubblicano «ministro della Real Casa». Alto, massiccio, gli occhi mobilissimi, sembrava vivesse avvitato alla sua poltrona, nella sua stanza ovale al Quirinale. Sempre con la cornetta del telefono all’orecchio, sostenuta da uno strano cuneo di gomma che gli permetteva di prendere appunti con le due mani libere; e con uno scacciamosche rosso di plastica con i forellini a portata di mano, che non si capiva bene se gli servisse a scacciare improbabili insetti in quelle stanze rarefatte, o a tenere lontani i rompiscatole.
Sembrava un oggetto scaramantico, retaggio del profondo Sud da cui proveniva. Era figlio della Puglia e del bibliotecario di Lucera, Giovanbattista Gifuni, amico del filosofo Benedetto Croce e appassionato di libri e codici: una cultura letteraria e giuridica che Gaetano aveva respirato e sublimato. E a Roma, con la valigia di fibra di chi proviene da una famiglia dignitosamente non ricca, aveva studiato e lavorato sodo, annotando su alcuni libriccini ogni spesa.
Nella Capitale, da ragazzo le uniche passioni erano il teatro e la politica. Si procurava i biglietti gratis per andare a vedere gli spettacoli come claquer. E in Parlamento non si perdeva un dibattito. A Roma, dopo la laurea, incontrò anche la moglie Adriana, che gli ha dato due figli, eredi delle sue passioni. Il primo, Giovanbattista, bibliotecario alla Camera dei deputati. Il secondo, Fabrizio, attore di successo.
Ora che se n’è andato, in un’italia nella quale la competenza è merce rara, il profilo di Gaetano Gifuni serve forse a ricordare che per funzionare una nazione ha bisogno anche di custodi esperti delle sue leggi e dei suoi equilibri: le fondamenta dello «Stato profondo».
La prudenza del mediatore Competente e temuto, aveva fama di uomo cauto. Ma era la prudenza del mediatore che voleva risolvere i problemi prima che esplodessero