Pessoa per una rivincita
Giulio Base: il cinema non mi perdona «L’isola»? E io vado a Venezia con «Il banchiere anarchico» L’attore-regista porta al Lido il film tratto dal romanzo dello scrittore portoghese
Da quando ho preso parte al reality incontro gente che si gira dall’altra parte: è un odore che ti porti addosso e che per loro non ha nulla di buono
Giulio Base, dall’«isola dei famosi» a Fernando Pessoa. Lì si è prestato a un reality che solletica morbosità e voyeurismo; qui lo troviamo attore e regista per un libro raffinato, Il banchiere anarchico. Pessoa lo scrisse nel 1922, 13 anni prima di morire, l’unico romanzo pubblicato (su una rivista letteraria portoghese) mentre lo scrittore era in vita, fu tradotto in 37 lingue. Teneva i suoi scritti nascosti in un baule. Il film, prodotto da Agnus Dei, sarà nelle sale in ottobre e a Roma riaprirà il cinema Quirinetta. Ma prima andrà alla Mostra di Venezia, sezione Sconfini, titolo che è un abito su misura per un autore enigmatico e poliedrico come Pessoa. «Ho trovato il coraggio di farlo», dice Giulio Base. Coraggio perché?
«Perché è il film che avrei sempre voluto fare. È il coraggio di fare una cosa che piace a me senza chiedermi se piacerebbe agli altri, è quello che gli artisti dovrebbero perseguire. È un pamphlet fulminante a due voci, ambientato in una sorta di bunker, il palazzo disadorno del banchiere. Lo interpreto io, vesto come lui, lo smoking, i baffetti, i capelli impomatati. Era un altoborghese che scriveva lettere commerciali per conto degli armatori portoghesi. Paolo Fossa è il suo amico. Si parla di lotta di classe, di borghesia, della tirannia delle finzioni sociali, tre temi tabù al cinema, eppure mai come oggi attualissimi. E di solitudine, o meglio, dell’atto di isolamento che è l’unico modo per condurre una vera vita rivoluzionaria, come dice il banchiere. È infelice, capisce di aver commesso delle ingiustizie verso se stesso e verso i suoi ex amici. Alla fine riterrà che la vera rivoluzione è l’individualismo assoluto». Il banchiere che si isola ricorda Enrico Cuccia.
«Sono d’accordo. Il simbolo di colui che non ostenta il suo potere. Il plutocrate che ama la riservatezza, la discrezione, il muoversi nell’ombra per il gusto del potere in sé. Oggi mi ricorda Zuckerberg e Soros. È chiaro che l’inquietudine del banchiere è l’inquietudine di Pessoa». Pessoa è una sua passione?
«La più grande della mia vita. Questo romanzo l’ho già recitato nel ’94 a teatro, in piena trance dal camaleontismo di Pessoa mi facevo chiamare con uno pseudonimo, Furio Schivo, la parola più vicina alla schizofrenia. È come gli adolescenti che hanno il poster della rockstar nella loro cameretta. Ho scoperto per caso i suoi libri una trentina d’anni fa, mi sono addentrato negli eteronimi dietro a cui nascondeva la sua identità. Si pensò che la letteratura portoghese tra le due guerre fosse la più ricca e con voci le più diverse, invece era lui e soltanto lui, Pessoa, al limite della schizofrenia (trascorse anche un periodo in un ospedale psichiatrico). Lo vedo come un uomo di oggi, così sdoppiato e multiplo negli interessi. Ho studiato il portoghese, sono andato a Lisbona nei luoghi della sua vita, in pellegrinaggio sulla sua tomba come i ragazzi fanno a Parigi con Jim Morrison. È un film da camera, stilizzato, nell’ambientazione mi sono rifatto ai quadri di Magritte».
L’ambiente del cinema le perdona «L’isola dei famosi»? «Mica tanto. Incontro gente che si gira dall’altra parte e mi dà la schiena; è un odore che ti porti addosso e che per loro non è buono. Hai fatto l’“isola”? Adesso togliti di mezzo. Ecco, l’atteggiamento è questo. Rocco Casalino dal “Grande fratello” a portavoce del presidente del Consiglio Giuseppe Conte? Bene, io non ho pregiudizi. Carter, l’ex presidente americano, vendeva noccioline nell’azienda di famiglia. “L’isola dei famosi” ti cambia, apprezzi tante piccole cose, hai un rapporto più sano col cellulare, non sei più dipendente dai social. Mi davano del calcolatore? Giusto così. È un gioco, ed è tutto vero quello che vedi, devi avere una strategia». Come attore appare, scompare…
«Mi piacerebbe farlo di più. Eppure ho recitato per Nanni Moretti (Caro diario) e Daniele Luchetti (Il portaborse). Sono più continuo come regista».