La Primavera soffocata dai cingoli Ma a Praga l’urss perse la faccia
1968-2018 Domani con il quotidiano un volume sull’invasione della Cecoslovacchia cinquant’anni dopo
Il «socialismo dal volto umano» minacciava di contagiare i Paesi satelliti L’intervento militare dimostrò che il modello sovietico era irriformabile
Per il fallimento del comunismo in Cecoslovacchia non ci sono alibi. Perché si tratta di uno scacco del marxismo rivoluzionario in quanto tale, prima ancora che del modello sovietico. In teoria, sotto ogni profilo, nell’immediato dopoguerra le condizioni di partenza erano straordinariamente favorevoli.
Non si trattava di un Paese arretrato e povero come la Russia del 1917, ma di ex province tra le più ricche e progredite dell’impero asburgico, per efficienza dell’apparato industriale e per livello d’istruzione. Esisteva una tradizione democratica piuttosto solida. E il popolo non aveva motivi di risentimento nazionale verso l’urss: semmai provava un giustificato rancore verso le potenze occidentali, che nel 1938 avevano consentito ai nazisti di smembrare la Cecoslovacchia. La Chiesa cattolica non era influente come in Polonia. Il Partito comunista non era una ridotta minoranza, come in altri Paesi dell’est, ma una forza di massa che alle elezioni del 1946, svolte senza brogli, aveva ottenuto un’ampia maggioranza relativa del 38 per cento e poi nel febbraio 1948 aveva preso il potere da solo, con il «colpo di Praga», senza che i sovietici intervenissero in modo significativo.
C’erano tutte le premesse per una «via nazionale al socialismo» diversa da quella seguita dai bolscevichi. E se davvero l’abolizione della proprietà privata fosse stata la ricetta per un sano ed equilibrato sviluppo produttivo, con tanto di giustizia sociale, in Cecoslovacchia si sarebbe visto. Invece no: l’economia collettivizzata manifestò presto i suoi guasti e la repressione contro ogni dissenso divenne sempre più brutale, fino alla purga nello stesso apparato di potere, con evidenti risvolti antisemiti, che sfociò nel processo a Rudolf Slansky, ex segretario del partito, e ad altri imputati, in gran parte condannati a morte, nel 1952. Un vero obbrobrio che François Fejtö, lo storico più autorevole dei Paesi satelliti dell’urss, definì «esempio di totale stalinizzazione».
Il trauma fu così violento che anche dopo la morte di Stalin nel 1953 e la denuncia dei suoi crimini nel 1956, Praga restò immobile sotto la guida del grigio e ottuso Antonin Novotny. La brace però covava sotto la cenere, non solo nella società, ma anche nel partito. Quando nel gennaio 1968 giunse al potere Alexander Dubcek, riformatore cauto ma persuaso della necessità di voltare pagina, le energie tanto a lungo compresse trovarono spazio per esprimersi.
S’E si capì che il modello sovietico alla Cecoslovacchia stava tremendamente stretto.
Si giocò allora una partita decisiva per le sorti del socialismo in Europa, che le più qualificate firme del «Corriere» (Enzo Bettiza, Egisto Corradi, Piero Ottone) seguirono in presa diretta con gli articoli raccolti nel libro Praga 1968, in edicola da domani per un mese con il quotidiano.
Dubcek non metteva in discussione il potere del partito, di cui peraltro era il leader, né l’appartenenza del suo Paese al blocco sovietico e non intendeva affatto restaurare il capitalismo: pensava a un sistema in cui il controllo pubblico dei mezzi di produzione si accompagnasse alle libertà individuali e collettive. Ma il suo esperimento poteva anche essere letto come un’inaspettata rivincita dei riformisti spazzati via vent’anni pria ma, come la dimostrazione che, in un Paese moderno e dal retroterra storico meno autoritario di quello russo o cinese, la socialdemocrazia risultava l’unica via praticabile per attuare gli ideali marxisti. Tanto che anche gli stalinisti, quali Dubcek e i suoi sostenitori erano stati, finivano per ravvedersi e percorrerla.
Comunque fosse, per il Cremlino si trattava di una minaccia tanto più insidiosa perché si presentava con un aspetto amichevole e mite. A Praga non era in corso una rivolta armata dalla forte connotazione nazionalista, come Budapest nel 1956, né Dubcek mostrava le ambizioni d’indipendenza dal Cremlino che avevano portato alla rottura tra Mosca e la Jugoslavia di Tito nel 1948. Eppure in Cecoslovacchia si sperimentava un modello di socialismo alternativo che delegittimava alla radice il sistema totalitario imposto dall’urss in Europa orientale. Il rischio del contagio era reale. Non a caso, come sottolinea Marcello Flores nella prefazione al volume del «Corriere», proprio i dirigenti comunisti dei Paesi satelliti (eccezion fatta per la Romania) insistettero molto perché il Cremlino non rimanesse inerte.
L’esperienza storica successiva ci dice che i veterocomunisti, dal loro punto di vista, non avevano torto. Quando una politica simile a quella di Dubcek venne perseguita a Mosca da Mikhail Gorbaciov, il risultato fu non soltanto il crollo del blocco sovietico, ma il collasso della stessa Urss. Intervenire con i carri armati per soffocare la Primavera di Praga era dunque per gli oligarchi del Cremlino, in prospettiva, questione di vita o di morte. Difficile pensare che l’aggressione dell’agosto 1968 potesse essere evitata, a meno che Dubcek non si fosse prestato lui stesso a stroncare il cambiamento che aveva promosso. Ma la normalizzazione venne pagata dal gruppo dirigente sovietico, capeggiato allora da Leonid Brežnev, a un prezzo politico altissimo.
La resistenza passiva della popolazione, il congresso tenuto alla macchia dal Partito comunista cecoslovacco, la difficoltà a trovare collaborazionisti credibili, il rogo suicida di Jan Palach e altri giovani, su cui si sofferma Flores, inflissero al prestigio dell’urss un colpo micidiale. Basti pensare che i partiti comunisti europei dell’ovest si dissociarono in massa dall’invasione, anche se poi quasi solo quello
I precedenti Nel dopoguerra venne instaurato un regime stalinista che attuò purghe sanguinose
Le conseguenze Episodi come il suicidio del giovane Jan Palach furono un duro colpo per il prestigio di Mosca
italiano, grazie soprattutto al coraggio di Enrico Berlinguer, mantenne ben fermo il dissenso negli anni successivi.
Oggi la Cecoslovacchia non esiste più, Praga e Bratislava hanno divorziato di comune accordo il 1° gennaio 1993. Siamo in una fase storica del tutto diversa e il «socialismo del volto umano» di Dubcek appare distante anni luce dai pensieri attuali dei cechi, come testimonia nella postfazione del libro lo scrittore francese Olivier Guez. Del 1968 non si ricorda tanto la fase delle speranze quanto l’evento traumatico che le stroncò. In fondo è logico, perché ne seguirono anni di repressione, conformismo e menzogna, a cui solo pochi audaci seppero opporsi.
Jiri Pelikan, esponente della Primavera di Praga esule a Roma, dove incontrò l’imbarazzo del Pci e la forte solidarietà del Psi di Bettino Craxi, a volte manifestava il dubbio che sarebbe stato meglio bloccare il processo riformatore pur di evitare i danni enormi prodotti dalla successiva normalizzazione. Lui — precisava — nel 1968 si sarebbe opposto a una scelta del genere, ma molti anni dopo non era più tanto sicuro che la sua posizione di allora fosse saggia. D’altronde la storia non si può cambiare. Bisogna però fare tutto il possibile per ricordarla e comprenderla.