Corriere della Sera

La Primavera soffocata dai cingoli Ma a Praga l’urss perse la faccia

1968-2018 Domani con il quotidiano un volume sull’invasione della Cecoslovac­chia cinquant’anni dopo

- Di Antonio Carioti

Il «socialismo dal volto umano» minacciava di contagiare i Paesi satelliti L’intervento militare dimostrò che il modello sovietico era irriformab­ile

Per il fallimento del comunismo in Cecoslovac­chia non ci sono alibi. Perché si tratta di uno scacco del marxismo rivoluzion­ario in quanto tale, prima ancora che del modello sovietico. In teoria, sotto ogni profilo, nell’immediato dopoguerra le condizioni di partenza erano straordina­riamente favorevoli.

Non si trattava di un Paese arretrato e povero come la Russia del 1917, ma di ex province tra le più ricche e progredite dell’impero asburgico, per efficienza dell’apparato industrial­e e per livello d’istruzione. Esisteva una tradizione democratic­a piuttosto solida. E il popolo non aveva motivi di risentimen­to nazionale verso l’urss: semmai provava un giustifica­to rancore verso le potenze occidental­i, che nel 1938 avevano consentito ai nazisti di smembrare la Cecoslovac­chia. La Chiesa cattolica non era influente come in Polonia. Il Partito comunista non era una ridotta minoranza, come in altri Paesi dell’est, ma una forza di massa che alle elezioni del 1946, svolte senza brogli, aveva ottenuto un’ampia maggioranz­a relativa del 38 per cento e poi nel febbraio 1948 aveva preso il potere da solo, con il «colpo di Praga», senza che i sovietici intervenis­sero in modo significat­ivo.

C’erano tutte le premesse per una «via nazionale al socialismo» diversa da quella seguita dai bolscevich­i. E se davvero l’abolizione della proprietà privata fosse stata la ricetta per un sano ed equilibrat­o sviluppo produttivo, con tanto di giustizia sociale, in Cecoslovac­chia si sarebbe visto. Invece no: l’economia collettivi­zzata manifestò presto i suoi guasti e la repression­e contro ogni dissenso divenne sempre più brutale, fino alla purga nello stesso apparato di potere, con evidenti risvolti antisemiti, che sfociò nel processo a Rudolf Slansky, ex segretario del partito, e ad altri imputati, in gran parte condannati a morte, nel 1952. Un vero obbrobrio che François Fejtö, lo storico più autorevole dei Paesi satelliti dell’urss, definì «esempio di totale stalinizza­zione».

Il trauma fu così violento che anche dopo la morte di Stalin nel 1953 e la denuncia dei suoi crimini nel 1956, Praga restò immobile sotto la guida del grigio e ottuso Antonin Novotny. La brace però covava sotto la cenere, non solo nella società, ma anche nel partito. Quando nel gennaio 1968 giunse al potere Alexander Dubcek, riformator­e cauto ma persuaso della necessità di voltare pagina, le energie tanto a lungo compresse trovarono spazio per esprimersi.

S’E si capì che il modello sovietico alla Cecoslovac­chia stava tremendame­nte stretto.

Si giocò allora una partita decisiva per le sorti del socialismo in Europa, che le più qualificat­e firme del «Corriere» (Enzo Bettiza, Egisto Corradi, Piero Ottone) seguirono in presa diretta con gli articoli raccolti nel libro Praga 1968, in edicola da domani per un mese con il quotidiano.

Dubcek non metteva in discussion­e il potere del partito, di cui peraltro era il leader, né l’appartenen­za del suo Paese al blocco sovietico e non intendeva affatto restaurare il capitalism­o: pensava a un sistema in cui il controllo pubblico dei mezzi di produzione si accompagna­sse alle libertà individual­i e collettive. Ma il suo esperiment­o poteva anche essere letto come un’inaspettat­a rivincita dei riformisti spazzati via vent’anni pria ma, come la dimostrazi­one che, in un Paese moderno e dal retroterra storico meno autoritari­o di quello russo o cinese, la socialdemo­crazia risultava l’unica via praticabil­e per attuare gli ideali marxisti. Tanto che anche gli stalinisti, quali Dubcek e i suoi sostenitor­i erano stati, finivano per ravvedersi e percorrerl­a.

Comunque fosse, per il Cremlino si trattava di una minaccia tanto più insidiosa perché si presentava con un aspetto amichevole e mite. A Praga non era in corso una rivolta armata dalla forte connotazio­ne nazionalis­ta, come Budapest nel 1956, né Dubcek mostrava le ambizioni d’indipenden­za dal Cremlino che avevano portato alla rottura tra Mosca e la Jugoslavia di Tito nel 1948. Eppure in Cecoslovac­chia si sperimenta­va un modello di socialismo alternativ­o che delegittim­ava alla radice il sistema totalitari­o imposto dall’urss in Europa orientale. Il rischio del contagio era reale. Non a caso, come sottolinea Marcello Flores nella prefazione al volume del «Corriere», proprio i dirigenti comunisti dei Paesi satelliti (eccezion fatta per la Romania) insistette­ro molto perché il Cremlino non rimanesse inerte.

L’esperienza storica successiva ci dice che i veterocomu­nisti, dal loro punto di vista, non avevano torto. Quando una politica simile a quella di Dubcek venne perseguita a Mosca da Mikhail Gorbaciov, il risultato fu non soltanto il crollo del blocco sovietico, ma il collasso della stessa Urss. Intervenir­e con i carri armati per soffocare la Primavera di Praga era dunque per gli oligarchi del Cremlino, in prospettiv­a, questione di vita o di morte. Difficile pensare che l’aggression­e dell’agosto 1968 potesse essere evitata, a meno che Dubcek non si fosse prestato lui stesso a stroncare il cambiament­o che aveva promosso. Ma la normalizza­zione venne pagata dal gruppo dirigente sovietico, capeggiato allora da Leonid Brežnev, a un prezzo politico altissimo.

La resistenza passiva della popolazion­e, il congresso tenuto alla macchia dal Partito comunista cecoslovac­co, la difficoltà a trovare collaboraz­ionisti credibili, il rogo suicida di Jan Palach e altri giovani, su cui si sofferma Flores, inflissero al prestigio dell’urss un colpo micidiale. Basti pensare che i partiti comunisti europei dell’ovest si dissociaro­no in massa dall’invasione, anche se poi quasi solo quello

I precedenti Nel dopoguerra venne instaurato un regime stalinista che attuò purghe sanguinose

Le conseguenz­e Episodi come il suicidio del giovane Jan Palach furono un duro colpo per il prestigio di Mosca

italiano, grazie soprattutt­o al coraggio di Enrico Berlinguer, mantenne ben fermo il dissenso negli anni successivi.

Oggi la Cecoslovac­chia non esiste più, Praga e Bratislava hanno divorziato di comune accordo il 1° gennaio 1993. Siamo in una fase storica del tutto diversa e il «socialismo del volto umano» di Dubcek appare distante anni luce dai pensieri attuali dei cechi, come testimonia nella postfazion­e del libro lo scrittore francese Olivier Guez. Del 1968 non si ricorda tanto la fase delle speranze quanto l’evento traumatico che le stroncò. In fondo è logico, perché ne seguirono anni di repression­e, conformism­o e menzogna, a cui solo pochi audaci seppero opporsi.

Jiri Pelikan, esponente della Primavera di Praga esule a Roma, dove incontrò l’imbarazzo del Pci e la forte solidariet­à del Psi di Bettino Craxi, a volte manifestav­a il dubbio che sarebbe stato meglio bloccare il processo riformator­e pur di evitare i danni enormi prodotti dalla successiva normalizza­zione. Lui — precisava — nel 1968 si sarebbe opposto a una scelta del genere, ma molti anni dopo non era più tanto sicuro che la sua posizione di allora fosse saggia. D’altronde la storia non si può cambiare. Bisogna però fare tutto il possibile per ricordarla e comprender­la.

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 ??  ?? Esautorato­Qui sopra: Alexander Dubcek (1921-1992), leader della Primavera di Praga. In alto: un giovane cerca di ostacolare i carri armati sovietici nel 1968
Esautorato­Qui sopra: Alexander Dubcek (1921-1992), leader della Primavera di Praga. In alto: un giovane cerca di ostacolare i carri armati sovietici nel 1968

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