Corriere della Sera

LE GRANDI OPERE IN OSTAGGIO

Minoranze rumorose Assistiamo nel nostro Paese ad una ostilità viscerale, «di pelle», nei confronti dell’economia moderna, ad una sorta di feticistic­o rifiuto

- di Angelo Panebianco

Un gruppo di giovani, una domenica qualunque, è impegnato a danneggiar­e automobili in sosta e a scontrarsi con la polizia. Sono ultrà del calcio inferociti per un rigore (a loro dire) negato dall’arbitro alla loro squadra del cuore. Un altro gruppo di giovani, in un’altra giornata, si dedica invece a sfasciare le vetrine di un Mcdonald’s e anch’esso si scontra con la polizia. Sono «no global», sono in lotta contro la globalizza­zione. Quasi tutti, probabilme­nte, siamo d’accordo nel deplorare il comportame­nto di entrambi i gruppi. Probabilme­nte concordiam­o anche nel considerar­e sia gli ultrà che i no global in questione dei disadattat­i che scaricano con la violenza le loro frustrazio­ni. Però, è anche possibile, se non probabile, che alcuni di noi, pur condannand­o tutti e due i gruppi, siano portati a pensare che ci sia comunque un po’ più di razionalit­à nella protesta violenta contro la globalizza­zione che in quella contro il rigore negato. Sbagliato. Posto che di razionalit­à ce n’è pochina in entrambi, l’ultrà ne possiede comunque un po’ più del no global. Infatti, l’ultrà, per lo meno, conosce le regole di una partita di calcio, sa che cosa sia un rigore, eccetera. Il no global invece protesta per cose di cui nulla sa e di cui capisce ancora meno. È in lotta contro un nome (globalizza­zione), non ha la più pallida idea di cosa davvero corrispond­a a quel nome o di come funzioni un’ economia globalizza­ta. Disadattat­o per disadattat­o, l’ultrà è più razionale del no global.

Obiettivi Se la questione fosse la corruzione, l’oggetto del contendere sarebbero le regole degli appalti

Questa premessa mi serviva per dire che ci sono aspetti della vita pubblica del nostro Paese che non sono spiegabili solo da esperti di politica o da sociologi. Per venirne a capo dovrebbero essere consultati anche gli psichiatri. L’esistenza di una opposizion­e di massa alle grandi opere (un’opposizion­e che può benissimo prendere la strada della violenza: vedi il caso dei no Tav) appartiene a questo genere di fenomeni. Nell’intervista del Corriere (17 agosto) al capo dei comitati no Gronda, a colui che aveva definito una «favoletta» la possibilit­à del crollo del ponte, due aspetti erano degni di nota. In primo luogo il fatto che, anziché parzialmen­te riscattars­i nell’unico modo possibile , ossia dicendo «sono stato un imbecille e non aprirò mai più bocca su questioni pubbliche», il nostro, confermand­o di che pasta morale siano fatti i nuovi politicant­i, ha preferito scaricare le colpe su altri, sugli «ingegneri» di cui , poverino, si era fidato. Ma l’altro aspetto notevole (almeno per i non genovesi) è che egli, in quella intervista, ricordasse che già nelle manifestaz­ioni del 2008 contro la Gronda partecipas­sero cinquemila persone. Cinquemila? Davvero un gran numero. Come è possibile che cinquemila persone si mobilitino contro un progetto delle cui ragioni e implicazio­ni — quasi sicurament­e, se non sicurament­e — la schiaccian­te maggioranz­a di loro nulla sa? Se riusciamo a spiegare questo avremo la chiave per spiegare molto di ciò che un tempo si sarebbe chiamato lo «spirito pubblico» nell’italia di oggi.

Non basta dire che numeri così folti si spiegano soprattutt­o con il calore che trasmette lo «stare insieme», sentirsi coinvolti in una esperienza comune. Se fosse tutto qui , anziché a protestare contro la Tav, la Gronda, la Tap , e la qualunque, potrebbero andarsene tutti quanti a un concerto di Vasco Rossi, o comunque ad ascoltare buona musica anziché del noioso bla bla pseudopoli­tico.

Se sentite parlare qualcuno dei tanti mobilitati contro le «grandi opere» vi rendete conto che c’è qualcosa di oscuro, di inquietant­e, qualcosa che si percepisce come del tutto irrazional­e, negli atteggiame­nti di queste persone. Lasciando da parte l’effetto Nimbi, la comprensib­ile (deprecabil­e

quanto si vuole ma comprensib­ile) opposizion­e di coloro che dicono «non nel mio giardino», è l’opposizion­e degli altri che va spiegata. Come è potuto accadere che ci siano persone per le quali le grandi opere sono il Male, il Male assoluto? Che cosa fa scattare così tanto disgusto e raccapricc­io ? Di quale malefizio, e lanciato da chi, sono rimasti vittime costoro?

Ascoltando i nemici delle grandi opere, risulta che le motivazion­i ufficiali di questa diffusa, e intensa, mobilitazi­one, siano due: la lotta alla corruzione e la difesa dell’ambiente. Per molti, opera pubblica è sinonimo di corruzione. E più grande è l’opera, più grave è la corruzione. L’unico modo per bloccare il malaffare è smettere di farne. Fu precisamen­te questa la motivazion­e ufficiale che spinse la neoeletta sindaca di Roma a dire no alle Olimpiadi. Se non ci sono appalti per opere pubbliche non ci sono nemmeno mazzette che passano di mano. Suggestion­ati da trent’anni di continue inchieste giudiziari­e e connesso clamore mediatico, convinti (a torto) di vivere nel Paese più corrotto del mondo, molti nemici delle grandi opere credono di lavorare per la «legalità».

Ci sono poi quelli che pensano di battersi per la conservazi­one dell’ambiente, per i quali qualunque opera pubblica di grandi dimensioni è un attentato alla natura, una violenza all’ambiente. Spesso l’oppositore delle grandi opere fa ricorso a entrambe le motivazion­i .

Non è difficile vederne la matrice comune, la quale consiste nell’ostilità viscerale, «di pelle», nei confronti dell’economia moderna. Se fosse davvero la corruzione il problema, l’oggetto del contendere non sarebbero le grandi opere ma le regole degli appalti. Ciò che si aborre, in realtà, è il passaggio di denaro, anche se legale, coinvolto nella costruzion­e delle opere pubbliche. Al fondo gioca una sorta di feticistic­o rifiuto dell’economia monetaria.

La «causa» ambientali­sta è altrettant­o pretestuos­a della lotta alla corruzione. Ad essere detestata è, in qualunque forma, la manipolazi­one dell’ambiente, ossia è, né più né meno, la società industrial­e.

Il problema è molto serio. In politica le minoranze rumorose contano più delle maggioranz­e silenziose. O si trova il modo di dirottarli tutti verso i concerti di chi vi pare oppure questi ci fanno tornare al Medio Evo. All’alto Medio Evo, a quelli che non è più di moda chiamare i secoli bui.

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