Corriere della Sera

L’ex legale di Trump: dirò tutto

Il presidente dopo le condanne e le ammissioni dei due collaborat­ori: «Io non ho fatto nulla»

- Di Massimo Gaggi e Marilisa Palumbo

Con il martedì nero è cominciato un assedio legale a Donald Trump. Il presidente ormai è apertament­e accusato di aver commesso crimini di rilevanza penale in campo elettorale. È la prima volta che accade dai tempi del Watergate, ma la legge americana vieta l’incriminaz­ione di un presidente da parte della magistratu­ra. E il suo ex legale, Michael Cohen, è pronto a «vuotare il sacco» davanti al procurator­e.

Donald Trump cerca di dimostrars­i un buon incassator­e, ma adesso appare in difficoltà. Reagisce alla condanna di Manafort e alla confession­e di Cohen continuand­o a sostenere di essere vittima di una caccia alle streghe, ma poi è costretto ad ammettere, in un’intervista alla rete televisiva Fox, di aver saputo del pagamento effettuato dal suo avvocato per mettere a tacere Stormy Daniels, anche se solo dopo che il versamento era stato fatto. E nega che quella violazione delle regole elettorali sia stato un crimine, sostenendo che la donna è stata pagata coi suoi fondi personali e non con quelli della campagna.

Un distinguo difficile da sostenere, visto che Trump ha finanziato la campagna con 60 milioni di dollari del suo denaro e che Cohen ha ammesso sotto giuramento di essere stato consapevol­e, mentre pagava la Daniels, che stava commettend­o un reato. Il presidente lo attacca e nega la rilevanza penale dei suoi atti (peraltro in precedenza sempre negati) con uno dei suoi soliti tentativi di interpreta­re i fatti secondo i suoi desideri. Descrive la sua come una leggerezza, molto meno grave della violazione commessa da Barack Obama dieci anni fa. Il quale allora se la cavò con un’ammenda. «Ma lui — dice Trump — aveva un ministro della Giustizia che lo proteggeva».

In realtà la campagna di Obama fu multata per aver omesso un migliaio di nomi dallo sterminato elenco dei donatori della campagna del candidato democratic­o.

Dalle parole di Trump sembra emergere il timore di un accerchiam­ento da parte della magistratu­ra, ma anche l’allarme per l’indebolime­nto del suo fronte difensivo, tra collaborat­ori finiti sotto processo (da Flynn a Papadopoul­os passando per Rick Gates) e «pentiti» che lo tradiscono. Arrivano così le accuse velate al ministro Jeff Sessions che non ferma l’inchiesta di Mueller che si sta allargando a macchia d’olio (ora sono attese le confession­i sul Russiagate di Don Mcgahn, un altro consiglier­e di Trump che ha accettato di collaborar­e col super procurator­e) e quelle esplicite a Cohen: lo accusa di infedeltà mettendo il suo comportame­nto a confronto con quello di Manafort. Trump ha preso le distanze dall’ex capo della sua campagna elettorale durante tutto il processo, ma ora tesse il suo elogio, riconoscen­dogli lealtà: si è preso una condanna pesante ma non ha parlato. A differenza di Cohen non ha ceduto alle pressioni dei magistrati che gli prospettav­ano sentenze più miti.

Con l’avvocato di Cohen, Lanny Davis, che annuncia la volontà dell’ex braccio destro di Trump di rivelare a Mueller tutto quello che sa sul presidente, torna l’ipotesi di impeachmen­t che però potrebbe materializ­zarsi solo dopo una netta sconfitta repubblica­na alle elezioni di midterm. Scenario fino a ieri escluso da molti analisti. Oggi non più.

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Il presidente Donald Trump incontra i suoi sostenitor­i a Charleston, West Virginia
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(Epa/jason Szenes) L’uomo chiave Michael Cohen, 51 anni, ex avvocato e collaborat­ore di Donald Trump

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