Inferno ad Arnhem Gli inglesi fermati alle porte del Reich
Il libro di Beevor (Rizzoli)
«Sempre che la guerra non finisca prima». Narra lo storico britannico Antony Beevor che, ai primi di settembre 1944, quinto anniversario dello scoppio della Seconda guerra mondiale, quasi ogni frase che si scambiavano tra loro i comandanti inglesi e americani comprendeva questa postilla di buon augurio. Non senza ragione. L’esercito tedesco, dopo la sconfitta in Normandia (almeno 400 mila uomini tra morti, feriti e prigionieri ed enormi perdite di materiali) e i rovesci subiti sul fronte orientale per mano dell’armata rossa, sembrava incapace di proteggere la Germania dai suoi nemici. Parigi era caduta il 25 agosto, Bruxelles era impazzita di gioia per l’arrivo dei carri armati britannici il 3 settembre e il grande porto belga di Anversa era stato conquistato intatto il 7 settembre.
Eppure nel giro di 20 giorni, tra Belgio e Olanda e tra la Mosa e il Reno, la Wehrmacht avrebbe riportato un grande successo sugli Alleati occidentali. Ed è proprio L’ultima vittoria di Hitler il titolo di un libro di Beevor in uscita il 4 settembre per Rizzoli (pagine 656, 51 foto fuori testo, 34) dedicato all’operazione Market-garden e alla battaglia di Arnhem. L’offensiva fu il tentativo ambizioso del maresciallo inglese Bernard Montgomery di aggirare da nord le fortificazioni occidentali della Germania e il complesso industriale della Ruhr. Il piano prevedeva di far correre una divisione corazzata su un «tappeto» di paracadutisti che, lanciati in ondate successive, avrebbero dovuto conquistare intatti i ponti tra il canale Alberto e il basso Reno, tra cui quelli sulla Mosa a Grave e sul Waal a Nimega, i più grandi d’europa. L’operazione, iniziata il 17 settembre, avrebbe dovuto concludersi nel giro di trequattro giorni e prevedeva il lancio di due divisioni americane tra Eindhoven, Grave e Nimega e di una britannica, con l’appoggio di una brigata polacca, su Arnhem, la città dove si trovava il ponte più lontano da conquistare. Ma le cose andarono diversamente: i carri armati, costretti a viaggiare su un’unica strada lunga 110 chilometri, circondata da terreno paludoso, non riuscirono ad arrivare in aiuto ai paracadutisti che pure avevano conquistato il ponte di Arnhem. La resistenza tedesca fu feroce e «tutto quello che poteva andare storto, andò storto», come disse un ufficiale alleato.
Tra il 25 e il 26 settembre, gli ultimi gruppetti di inglesi e polacchi riattraversarono sconfitti il grande fiume: partirono in oltre 11 mila, tornarono meno di 4 mila. Forti perdite, anche se i ponti furono conquistati e tenuti, riportarono anche i paracadutisti americani, sottoposti ai contrattacchi tedeschi lungo il «viale dell’inferno», come fu soprannominata la strada per Arnhem. Beevor racconta la genesi, viziata da molti errori, e la battaglia, con testimonianze di coloro che vi parteciparono. Ma nel libro è presente anche, forte e chiara, la voce dei civili olandesi coinvolti. Dopo la battaglia, Arnhem fu evacuata a forza e saccheggiata a fondo dalle truppe tedesche. E l’intera Olanda fu sottoposta a un regime di requisizioni e ristrettezze che passò alla storia come l’hongerwinter, l’inverno della fame, in cui le razioni di cibo scesero fino a 230 calorie al giorno. Montgomery disse che l’operazione era riuscita al 90 per cento, dal momento che l’esercito aveva percorso i nove decimi della strada per Arnhem. Ma commentò il maresciallo capo dell’aria Arthur Tedder: «Anche il tasso di sopravvivenza di chi va a schiantarsi in un burrone è molto alto, se non si considerano gli ultimi centimetri».