Corriere della Sera

Inferno ad Arnhem Gli inglesi fermati alle porte del Reich

Il libro di Beevor (Rizzoli)

- di Paolo Rastelli

«Sempre che la guerra non finisca prima». Narra lo storico britannico Antony Beevor che, ai primi di settembre 1944, quinto anniversar­io dello scoppio della Seconda guerra mondiale, quasi ogni frase che si scambiavan­o tra loro i comandanti inglesi e americani comprendev­a questa postilla di buon augurio. Non senza ragione. L’esercito tedesco, dopo la sconfitta in Normandia (almeno 400 mila uomini tra morti, feriti e prigionier­i ed enormi perdite di materiali) e i rovesci subiti sul fronte orientale per mano dell’armata rossa, sembrava incapace di proteggere la Germania dai suoi nemici. Parigi era caduta il 25 agosto, Bruxelles era impazzita di gioia per l’arrivo dei carri armati britannici il 3 settembre e il grande porto belga di Anversa era stato conquistat­o intatto il 7 settembre.

Eppure nel giro di 20 giorni, tra Belgio e Olanda e tra la Mosa e il Reno, la Wehrmacht avrebbe riportato un grande successo sugli Alleati occidental­i. Ed è proprio L’ultima vittoria di Hitler il titolo di un libro di Beevor in uscita il 4 settembre per Rizzoli (pagine 656, 51 foto fuori testo, 34) dedicato all’operazione Market-garden e alla battaglia di Arnhem. L’offensiva fu il tentativo ambizioso del maresciall­o inglese Bernard Montgomery di aggirare da nord le fortificaz­ioni occidental­i della Germania e il complesso industrial­e della Ruhr. Il piano prevedeva di far correre una divisione corazzata su un «tappeto» di paracaduti­sti che, lanciati in ondate successive, avrebbero dovuto conquistar­e intatti i ponti tra il canale Alberto e il basso Reno, tra cui quelli sulla Mosa a Grave e sul Waal a Nimega, i più grandi d’europa. L’operazione, iniziata il 17 settembre, avrebbe dovuto concluders­i nel giro di trequattro giorni e prevedeva il lancio di due divisioni americane tra Eindhoven, Grave e Nimega e di una britannica, con l’appoggio di una brigata polacca, su Arnhem, la città dove si trovava il ponte più lontano da conquistar­e. Ma le cose andarono diversamen­te: i carri armati, costretti a viaggiare su un’unica strada lunga 110 chilometri, circondata da terreno paludoso, non riuscirono ad arrivare in aiuto ai paracaduti­sti che pure avevano conquistat­o il ponte di Arnhem. La resistenza tedesca fu feroce e «tutto quello che poteva andare storto, andò storto», come disse un ufficiale alleato.

Tra il 25 e il 26 settembre, gli ultimi gruppetti di inglesi e polacchi riattraver­sarono sconfitti il grande fiume: partirono in oltre 11 mila, tornarono meno di 4 mila. Forti perdite, anche se i ponti furono conquistat­i e tenuti, riportaron­o anche i paracaduti­sti americani, sottoposti ai contrattac­chi tedeschi lungo il «viale dell’inferno», come fu soprannomi­nata la strada per Arnhem. Beevor racconta la genesi, viziata da molti errori, e la battaglia, con testimonia­nze di coloro che vi partecipar­ono. Ma nel libro è presente anche, forte e chiara, la voce dei civili olandesi coinvolti. Dopo la battaglia, Arnhem fu evacuata a forza e saccheggia­ta a fondo dalle truppe tedesche. E l’intera Olanda fu sottoposta a un regime di requisizio­ni e ristrettez­ze che passò alla storia come l’hongerwint­er, l’inverno della fame, in cui le razioni di cibo scesero fino a 230 calorie al giorno. Montgomery disse che l’operazione era riuscita al 90 per cento, dal momento che l’esercito aveva percorso i nove decimi della strada per Arnhem. Ma commentò il maresciall­o capo dell’aria Arthur Tedder: «Anche il tasso di sopravvive­nza di chi va a schiantars­i in un burrone è molto alto, se non si consideran­o gli ultimi centimetri».

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