Il cardinale, il briccone e il gigante Una trinità per il culto bianconero
Con la passione per la Juventus Ernesto Ferrero racconta il linguaggio universale del calcio (Einaudi)
Amarcord bianconero di Ernesto Ferrero, pubblicato da Einaudi, non è un trattato di calcio, e nemmeno un saggio di storia della Juventus, di cui peraltro Ferrero è devotamente innamorato. È un libro che, alimentato appunto dalla potenza del ricordo, e dal ricordo delle emozioni profonde, e dalle emozioni profonde che trasudano da un campo dove si gioca a pallone e dove una delle due squadre, la prediletta, indossa una maglia a strisce bianche e nere, intreccia epopea e letteratura, football e mitologia, tecnica e narrazione delle gesta di grandi personaggi. Ferrero prende alla lettera un giudizio di Pier Paolo Pasolini: «Ogni gol è sempre un’invenzione… Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno». E del resto, qualcuno ha scritto, forse Sartre sostiene Ferrero, che «una partita di calcio è una buona metafora della vita» e Sergio Givone si è spinto oltre, correggendo: «La vita è una buona metafora del calcio». È questa passione per la vita, per la poesia del calcio, per i sentimenti potenti nutriti dal calcio che rende alcune pagine di questo «amarcord» il ritratto vivido di persone capaci di incarnare una forza simbolica trascinante. Si veda per esempio il capitolo su una triade molto cara a chi è appassionato della Juve, un pilastro morale della giovinezza di Ferrero (e della pubertà di chi scrive): il trio Boniperti, Sivori, Charles.
Boniperti, «il segretario di Stato della chiesa juventina: professionale, lucido, spietato», il calciatore che con il suo mento «proteso e volitivo» prometteva «le cattiverie di un astuto cardinale politicizzato, alla Richelieu». E accanto a Richelieu lui, l’argentino Omar Enrique Sivori, «il briccone, il re dei folletti con sulla fronte il ciuffo di un bravo manzoniano o di un ragazzo di vita pasoliniana, i calzoncini che sembravano mutande troppo lunghe, i calzettoni arrotolati sulle caviglie, sulle labbra il ghignetto di quello che ti prende per i fondelli». Che forza, Omar Sivori, il Cabezón: «Faceva impazzire i difensori, che lo ricambiavano con entrate assassine, accrescendo in lui l’impegno che metteva nel beffarli, facendogli passare la palla in mezzo alle gambe, il suo colpo preferito, il mitico tunnel». E infine il Gigante Buono, «retto, leale, disciplinato come un granatiere della regina», «un figlio del popolo che si è forgiato nelle prove più aspre senza mai indurire la propria tenera scorza umana, un David Copperfield finalmente risarcito di abusi e violenze», «l’ursus di Quo vadis, perfetto complemento del cardinal Boniperti e dello sciuscià Sivori», insomma al secolo John Charles, un mito assoluto.
Dalla descrizione di questa trinità bianconera si evince il carattere letterario del libro. Perché parlare e scrivere di calcio, lo dimostra Ernesto Ferrero, è parlare della vita, della letteratura, della fantasia, dell’immaginazione, della realtà dura e aspra anche. C’è un omaggio sentito a chi ha scritto di calcio, di Juve, e dunque del mondo morale che ci affascina e ci appassiona. L’omaggio a Gianni Brera, che Umberto Eco definiva il «Gadda spiegato al popolo», il Brera che quando l’inter veniva sonoramente battuta dalla Juve a San Siro scriveva ai tifosi nerazzurri: «Bauscioni, fratelli, popol mio: pigliamo su e portiamo a casa». L’omaggio a Giovanni Arpino, e il suo «calcio come autobiografia di una nazione di perdenti cronici». Al radiocronista Nicolò Carosio, che snocciolava i nomi dei calciatori «come l’elenco dei capitani greci nel secondo canto dell’iliade: il Piè veloce, l’iracondo, l’astuto, il figlio di Peleo…», il Carosio che «sarebbe dovuto salire sull’aereo che portò il Torino alla trasferta di Lisbona e che al ritorno si schiantò a Superga, ma aveva rinunciato al viaggio perché non voleva perdersi la cresima del figlio». Un omaggio a Mario Soldati, un tifoso fazioso che provava una nostalgia immensa e immedicabile per la Juventus quando andò in America negli anni Trenta: «I bianconeri entreranno di corsa, nell’urlo della folla. I cari umani voleranno per l’aria con il nevischio: Caliga, Biga, Combi, Mune, Orsi… alò, alò alò Juventus, alò Juventus».
Cronache epiche Nicolò Carosio snocciolava i nomi dei calciatori in campo come l’elenco dei capitani greci nel secondo canto dell’«iliade»
Pier Paolo Pasolini «Ogni gol è un’invenzione. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno»
Ferrero descrive un calcio che si giocava come «un duello rusticano»: «il clima era quello di Fronte del porto, uno struggle for life d’impianto darwiniano». Un calcio in cui «di tattiche e dotte strategie si parlava assai poco». A Torino essere della Juve o del Toro metteva in luce diversi «caratteri identitari». La Juventus era nata nei pressi del liceo D’azeglio, «su una panchina di corso re Umberto, di fronte alla pasticceria Platti, per iniziativa di un gruppo di studenti minorenni che guardavano all’inghilterra». Un «nome classicheggiante», Juventus, che rimandava a una forma di superbia umanistica. Mentre dall’altra parte c’era il popolo granata del «Quarto Stato di Pellizza di Volpedo», la «tempra indomabile di lavoratori». Tante cose sono cambiate nel frattempo, ma non la forza mitopoietica di uno sport, di una passione popolare, di una maglia a strisce bianche e nere che danno la stura a questo torrente di «amarcord», con le sue tristezze e con la sua impareggiabile epica, navigato con maestria da Ernesto Ferrero. Una storia, come recita anche l’inno, di un «grande amore».