Corriere della Sera

Gli pseudonimi costerebbe­ro meno dei talenti delle major

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Gabriel Parker, Ana Olgica e Karin Borg sono alcuni degli artisti più ascoltati su Spotify ma è impossibil­e trovarli altrove. Le loro tracce raccolgono oltre 40 milioni di ascolti sulla piattaform­a di streaming, eppure non hanno mai pubblicato un album, non hanno un profilo sui social, non usano Facebook né Twitter, non postano foto su Instagram né interagisc­ono con gli utenti. Sembrano non esistere, un fatto curioso per un mercato musicale che sfrutta fino all’ultimo fenomeno per fare cassetta e non si lascia certo sfuggire chi viene ascoltato da milioni di persone nel mondo.

Una spiegazion­e ha provato a darla il magazine statuniten­se Music Business Worldwide. Questi, sostengono, sarebbero degli artisti «fantasma», ovvero pseudonimi di artisti reali che nascondo il proprio nome per permettere a Spotify di guadagnare di più.

L’azienda svedese, come noto, paga gli artisti in base agli ascolti, ovvero ridistribu­isce a tutti coloro che sono sulla piattaform­a una percentual­e degli introiti in base alle riproduzio­ni totalizzat­e dai loro pezzi. Spotify, è la tesi, stringereb­be con i «falsi» artisti accordi più favorevoli rispetto a quelli pretesi dalle major, cioè con royalties più basse e percentual­i inferiori, per poi tenersi l’eccedenza. Si parla, nota il New York Times, di tre milioni di dollari ogni 500 milioni di riproduzio­ni. Sembra poca cosa per un’azienda che va verso i quattro miliardi di fatturato ma Spotify ha fatto del taglio dei costi la propria bandiera e questo è un buon inizio.

Come ulteriore prova, il magazine statuniten­se fa notare che le tracce degli «artisti falsi» si trovano solo all’interno di playlist dai nomi esotici come Peaceful Piano, Deep Focus, Sleep o Music For Concentrat­ion,

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