Amarcord in bianco e nero Il Messico caotico di Cuarón
Lunghi applausi a «Roma» sulla vita quotidiana di un quartiere
«B occiato» da Cannes per via della produzione Netflix, Roma di Alfonso Cuarón arriva sul Lido accolto dagli applausi. Il titolo è quello di un quartiere borghese di Città del Messico, dove il film è ambientato nel 1971, quando la repressione contro le manifestazioni di protesta finirono nel tragico «massacro del Corpus Christi».
Scavando nei ricordi autobiografici, il regista messicano racconta la storia parallela di due donne, la borghese Sofia che il marito ha lasciato sola coi quattro figli e la loro tata mixteca Cleo, che un giovane manesco ha abbandonato dopo aver messo incinta. La loro vita si intreccia con quella del Paese (quando Cleo viene accompagnata a comprare una culla scoppia la violenza nelle strade, ritardando così la sua corsa in ospedale dopo che l’emozione le ha fatto perdere le acque) mentre seguiamo i problemi che pongono i bambini, il denaro, gli amici che vogliono «consolare» la moglie sola, i piccoli incidenti quotidiani. Fotografato in un risplendente bianco e nero, il film sa trasmettere quel senso di confusione se non di sconfitta e fallimento che il Messico attraversava in quegli anni, dove la borghesia (vedi il marito) preferisce fuggire Anni 70 le vicende di due colf, Cleo (Yalitsa Aparicio) e Adela (Nancy García, sopra) negli anni 70 e il proletariato (come il fidanzato di Cleo) sfoga la rabbia nella violenza. Così come assume forza metaforica il destino dell’indigena Cleo, madre mancata per sé ma madre salvifica per i figli della borghesia. Un sovraccarico di senso che però finisce per togliere vitalità al film, troppo perfetto nelle sue studiatissime inquadrature e nei suoi ricercati movimenti di macchina per emozionare davvero. Svelando quello che è probabilmente il problema delle produzioni Netflix affidate a registi di gran nome: una libertà tanto grande da favorire gli eccessi.
Problema che il greco Yorgos Lanthimos non deve aver avuto quando la Fox gli ha affidato la sceneggiatura di Tony Mcnamara per un film in costume, obbligandolo così a stare lontano dall’intellettualismo delle sue opere precedenti. In La Favorita si racconta la sfida per conquistare la fiducia della regina Anna Stuart, che regnò dal 1702 al 1713 mentre Londra faceva guerra alla Francia. A contendersi i favori regali, lady Sarah Marlborough (Rachel Weisz), abile tessitrice di intrighi diplomatici, e sua cugina Abigail (Emma Stone), preoccupata solo del proprio tornaconto. Ci sono tutte le lotte e le trappole del caso, con una predilezione per le trame sessuali su quelle politiche, e naturalmente ci sono tre grandi attrici: alle due citate va aggiunta un’irriconoscibile Olivia Colman nel ruolo della sovrana. Più complicato capire dov’è la firma di Lanthimos che eccede in illuminazioni di candele e incongrue riprese al grandangolo ma poi non va più in là di qualche gratuito e «scandaloso» squarcio sulla corruzione della corte.
Delusione completa invece per The Mountain di Rick Alverson, esasperante ricostruzione a base di primi piani e inquadrature fisse del viaggio di un dottore specializzato in piccole «lobotomie» per sedare i malati di mente accompagnato da un giovane orfano che immortala i suoi pazienti, forse metafora del cinema che blocca la vita (ricordate «la morte al lavoro») più probabilmente inutile exploit di narcisismo autoriale.