«Il ponte si è alzato, poi solo il buio Vivi per miracolo e ora ci sposiamo»
Natasha ed Eugeniu, tra i feriti più gravi. «Quattro ore sotto le macerie»
«Abbiamo deciso in questi giorni: ci sposiamo. Lo faremo in chiesa, per ringraziare il cielo di essere ancora qui. Quel giorno Dio ha conservato un nido per noi, per salvarci».
Natasha si commuove, il suo Eugeniu si avvicina, la bacia, la guarda e dice che «essere vivi, oggi, è un miracolo che ne contiene tanti altri».
Alle 11.36 del 14 agosto l’ucraina Natalya Yelina (per gli amici Natasha), 43 anni, era in auto sul ponte Morandi accanto all’uomo della sua vita, il moldavo Eugeniu Babin, 34 anni, conosciuto tredici anni fa in Italia. Erano partiti all’alba dalla loro casa di Santa Maria Capua Vetere, vicino a Caserta, e andavano in Francia per una in vacanza: un giro fra la Costa Azzurra e la Provenza.
Si sono ritrovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, sono precipitati assieme alla strada, ai piloni, ai tiranti, alla sorte di chi come loro è stato inghiottito da cumuli giganteschi di macerie. Le loro vite erano compresse in cinquanta centimetri di spazio, al buio, finché le mani dei Vigili del fuoco non hanno spostato un pezzo, poi un altro, un altro ancora. E loro hanno rivisto la luce.
Ci sono volute quattro ore prima che una voce scossa dall’emozione chiamasse finalmente la centrale per dire: «Ce l’abbiamo fatta, sono salvi».
Salvi. Tutti e due, «e questo è il miracolo più grande» dice Eugeniu. «Ma c’è anche la fortuna che il figlio di Natasha non sia venuto con noi in vacanza, come doveva essere in un primo momento. C’è che hanno sentito le nostre voci urlare da là sotto. C’è che non abbiamo perso sangue, conoscenza. E poi essere qui dentro: anche questo ha del miracoloso», sorride.
I promessi sposi sono nella stessa stanza del Padiglione Maragliano al Policlinico San Martino di Genova, «una camera matrimoniale» scherzano il primario dell’unità di Riabilitazione Giovanni Abbruzzese e il suo dirigente Francesco Ventura. Eugeniu — che ha un negozio dove lui fa il parrucchiere e lei l’estetista — fra pochi giorni potrà essere dimesso, Natasha ne avrà ancora per tre settimane. «Ora stiamo combattendo ancora contro i dolori fisici» dice lei. «Poi, con il passare del tempo, dovremo capire che cosa c’è nella testa, cosa ci rimarrà, dentro, di tutta questa storia. Qui mi sento protetta ma so che quando uscirò dovrò fare i conti con quel che è successo. Già adesso mi sale la paura al solo fatto di entrare in un ascensore...».
Lei, madre di Bodan, un ragazzo di vent’anni che ha avuto dal suo ex marito, è laureata in psicologia e sa bene che per sopravvivere a un evento scioccante come questo è fondamentale saper affrontare l’onda lunga della memoria.
Di quegli istanti, delle sensazioni provate, sia lei sia Eugeniu ricordano tutto. «Il ponte ha iniziato ad alzarsi» racconta Natasha, «e ho capito
Dopo essere rotolati ci siamo detti: siamo vivi. Poi la nostra paura più grande era che non ci trovassero. In quei momenti ho pensato ai miei genitori e a mio figlio che sarebbero rimasti soli se io non ce l’avessi fatta
che stava succedendo qualcosa di bruttissimo. Quando abbiamo finito di cadere e rotolare ci siamo detti: siamo ancora vivi. Ma la nostra paura più grande era che non ci trovassero». Si ferma a respirare, abbassa la testa e quando la rialza ha gli occhi lucidi nel dire che «in quei momenti ho pensato ai miei genitori e a mio figlio che sarebbero rimasti soli se non ce l’avessi fatta».
Lucidi, sepolti vivi sotto una montagna di macerie, feriti e a testa in giù. «Io ho cominciato a muovere le gambe e le mani per capire se ero intero. Ho chiesto a lei di fare lo stesso e poi abbiamo suonato il clacson finché la batteria non è finita. Quando da lontano abbiamo sentito le voci dei soccorritori ci siamo messi a urlare: “Siamo qui, siamo qui”. Immaginavo che la macchina fosse schiacciata dalle macerie ma non sapevo cosa c’era là fuori. Poi abbiamo sentito una voce che diceva: “Non preoccupatevi, vi salviamo”. È stato un momento di grandissimo sollievo, anche se cominciavo a sentire dolori fortissimi».
Intanto Bodan chiamava sua madre. Una, due, cento volte. «Quando ero ormai salva gli ha risposto uno dei Vigili del fuoco», ricorda Natasha. «Non finirò mai di ringraziarli». Una pausa per prendere fiato. «Ci parlavamo, lì sotto, io ed Eugeniu. Eravamo arrivati vivi fino a quel punto, non potevamo non farcela. Non abbiamo abbandonato la speranza nemmeno un istante e ora siamo qui».
Pronti a vivere una seconda vita, stavolta da marito e moglie.
Ricoverati Sono nella stessa camera al San Martino: «Stanza matrimoniale» scherza il primario