Corriere della Sera

RIFIUTARE LA COMPETENZA UN’IDEA FALSA DI DEMOCRAZIA

Nuova stagione Una parte del Paese considera la valutazion­e delle capacità di una singola persona come una forma di discrimina­zione o un atto di autoritari­smo

- di Giovanni Belardelli

N el giro di poche settimane i commenti sul governo gialloverd­e sono passati dal sottolinea­re i costi e l’irrealizza­bilità del «contratto» di governo, nonché le contraddiz­ioni tra Lega e Cinquestel­le, alla previsione che l’esecutivo potrebbe invece durare non poco. È la rabbia contro i vecchi partiti ad essere generalmen­te addotta come spiegazion­e principale di un consenso che non sembra scemare (lasciamo ora da parte il perché la Lega di Salvini venga percepita come una forza politica nuova). In effetti, un settore importante dell’opinione pubblica afferma con decisione che, qualunque cosa faccia o al contrario si dimostri incapace di fare il governo attuale, di sicuro quelli di prima non li voterà mai più. Questo rifiuto è solo il prodotto di anni e anni di polemica anticasta, come spesso si afferma, o c’è dell’altro?

Temo che all’origine vi siano elementi non congiuntur­ali, che rimandano a una trasformaz­ione profonda della nostra società, che tende sempre più a concepire l’eguaglianz­a nel senso di un rifiuto di tutto ciò che sembra elevarsi al di sopra della massa dei cittadini comuni. Questo atteggiame­nto — che ritroviamo fisicament­e riassunto nella «ostentata medietà» dei due vicepremie­r sottolinea­ta da Federico Fubini (Corriere, 25 agosto) ma anche nello slogan «uno vale uno» del M5S — fa parte da sempre della mentalità democratic­a. Quasi due secoli fa, di ritorno dal suo viaggio in America, Alexis de Tocquevill­e scriveva: «Tutto ciò che in qualche modo lo supera, pare allora [al popolo] un ostacolo ai suoi desideri, e non c’è superiorit­à, anche legittima, la cui vista non affatichi i suoi occhi». In generale i regimi democratic­i hanno saputo convivere con questi atteggiame­nti, tenendoli dunque a bada, nella consapevol­ezza che le élites, politiche e tecniche, sono pur sempre necessarie, rappresent­ano una forma di peculiare «aristocraz­ia», come scriveva Tocquevill­e, della quale i regimi democratic­i non possono fare a meno.

Ora qualcosa è cambiato, in Italia e non solo. Ciò che continuiam­o a definire populismo, dunque con un termine nato nell’800, si qualifica oggi, nell’era della Rete in cui tutto il sapere sembra essere alla portata di tutti, in cui tutti possono intervenir­e su tutto (e lo fanno), si qualifica, dicevo, anche per l’idea che solo le spiegazion­i semplici sono a misura della democrazia, concepita come un regime politico ma anche sociale che non tollera nulla e nessuno che si elevi al di sopra degli uomini e delle donne comuni.

Nella società italiana questo atteggiame­nto è probabilme­nte rafforzato anche da una cronica difficoltà a valutare le capacità e i meriti (o demeriti) di ciascuno: degli insegnanti e in generale dei dipendenti pubblici, ma anche dei magistrati, le cui carriere avvengono da tempo soprattutt­o per anzianità. Una parte del Paese considera la valutazion­e delle capacità di una singola persona come una forma di discrimina­zione, qualcosa di sostanzial­mente non democratic­o: si tratta di un retaggio o di un effetto collateral­e della battaglia del Sessantott­o per l’egualitari­smo e contro l’autoritari­smo, che ci dice tra l’altro quanti materiali diversi confluisca­no nell’attuale consenso al governo giallo-verde.

La disinvoltu­ra e, se è consentito, la faciloneri­a con cui esponenti di primissimo piano dell’esecutivo si pronuncian­o subito su tutto — dai vaccini alla ricostruzi­one del ponte Morandi — usando non a caso la stessa forma di comunicazi­one dei comuni cittadini (Twitter, Facebook) enfatizza dunque un nuovo stadio raggiunto dalla democrazia nell’era della Rete, imperniato sul rifiuto di tutto ciò che ha a che vedere con la competenza. Naturalmen­te, hanno ragione da vendere tutti coloro che sottolinea­no i pericoli di questa idea democratic­a (falsamente democratic­a, è ovvio) che — in economia come in medicina — diffida degli esperti, pretende la semplicità e quasi identifica ciò che è complicato con ciò che non è democratic­o, comprese le regole giuridiche.

Si ricordi al riguardo «la giusta causa sono i morti» del ministro Di Maio: una pessima giustifica­zione per una decisione di revoca della concession­e ad Atlantia che avrebbe potuto basarsi su ben più solidi argomenti (ma troppo tecnici, troppo complicati, dunque poco «democratic­i»). Ma, per quanto giuste, difficilme­nte le critiche a chi si fa beffe degli esperti sortiranno qualche effetto: come tutte le ideologie, anche questa nuova «democrazia integrale» basata sulla universale semplicità è infatti impermeabi­le alle contestazi­oni e ai fatti. O almeno, lo è entro certi limiti, che c’è da augurarsi non debbano essere superati (c’è qualche commentato­re che non esclude futuri scenari venezuelan­i) perché il Paese sia costretto a riconoscer­e che in realtà degli esperti non si può fare a meno. E che semmai, e non è poco, bisognereb­be cercare di sceglierli bene.

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