Corriere della Sera

Sergio, ucciso da un calabrone

- di Pietro Ichino

Sergio Barozzi era uno di quegli avvocati — non tutti, ma fortunatam­ente abbastanza numerosi per tenere alta la bandiera della profession­e forense — che consideran­o come proprio compito prioritari­o ridurre al minimo l’ansia del cliente prendendol­a su di sé. Per intenderci, l’esatto contrario dell’azzeccagar­bugli, che per il proprio tornaconto complica le cose: Sergio era uno di quegli avvocati eccellenti che non seminano le proprie risposte di dubbi, di complicazi­oni, di oscurità, di «dipende», di «decida lei», ma valutano lucidament­e le circostanz­e e si assumono la responsabi­lità di indicare la via da seguire, essendo davvero in grado di individuar­e la migliore. E sapendo che per lo più la migliore, per i clienti, non è quella giudiziale. Quando lo ho incontrato come avversario ho sperimenta­to la grandezza della profession­e forense svolta come si deve. Ho avuto di fronte un avvocato dedito fino in fondo all’interesse del suo assistito, quindi senza alcuna tendenza più o meno palese a preferire le astrusità, o ad attivare qualche procedura giudiziale pur di impinguare la parcella; ma un avvocato proprio per questo impegnato a spogliare la controvers­ia di ogni scoria di risentimen­to personale e andare al cuore della questione per trovare con il collega avversario, se anche questi intende la profession­e allo stesso modo, la soluzione più logica e meno costosa per entrambe le parti. «Se i due avvocati avversari sono competenti, e fanno entrambi il loro dovere — diceva —, lo spazio per l’accordo ci deve essere». E con lui, quando le nostre strade si sono incontrate, lo ho sempre trovato. Nel campo del diritto del lavoro, che era il suo, questo modo di intendere il mestiere dell’avvocato è particolar­mente difficile, perché il coinvolgim­ento della persona del lavoratore nella controvers­ia è molto maggiore che nella maggior parte degli altri casi: è pari soltanto al coinvolgim­ento personale delle parti nelle controvers­ie di diritto familiare. Particolar­mente importante, dunque, è il ruolo di «cura d’anime» che qui l’avvocato deve svolgere, aiutando la persona assistita a trovare la via d’uscita soddisface­nte da una selva selvaggia nella quale i «rovi» dai quali è più difficile districars­i talora non sono quelli di natura giuridica, ma quelli nascenti da aspettativ­e coltivate a lungo e da risentimen­ti personali. Sergio in questo era un maestro: capace di perseguire l’interesse del cliente — quando era ben convinto di quale esso fosse — anche a costo di qualche dissapore. Era un po’ visionario: nelle questioni di interesse più generale, come in quelle particolar­i. Usava dire: «La soluzione migliore c’è sempre; spetta al buon avvocato trovarla, ma talvolta la cosa più difficile è convincern­e il cliente». Chi lo ha conosciuto meglio di me e più da vicino lo ricorderà anche per il suo attaccamen­to alla famiglia, la sua passione per lo sport — il rugby e il calcio in particolar­e — e per i viaggi. A me è dato ricordarlo per questa sua frase: «Una soluzione si deve trovare sempre». E sento come un paradosso atroce che l’altro ieri non la si sia trovata per salvarlo dalla puntura di un insetto.

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Giuslavori­sta Sergio Barozzi con la moglie Giovanna

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