Corriere della Sera

«Ogni tribù pretende i proventi del petrolio E la competizio­ne tra Roma e Parigi ha alimentato la crisi»

- di Lorenzo Cremonesi

«L’intensific­arsi violento della crisi a Tripoli come metafora drammatica dell’incapacità europea nell’elaborare una politica estera comune in Libia. È drammatico che Italia e Francia, i due Paesi europei storicamen­te più coinvolti nello scenario di questo importante Paese sulla costa meridional­e del Mediterran­eo, non solo non siano in grado di lavorare assieme, ma addirittur­a sostenendo fazioni opposte finiscano per alimentare la crisi interna». È pessimista Gilles Kepel. «Non vedo soluzioni rapide alla violenza che insanguina Tripoli», afferma al Corriere. Il noto politologo parigino, grande esperto del fondamenta­lismo islamico, ne parlerà sabato prossimo a un convegno a Palermo sulle «Filosofie del Mediterran­eo» anche sulla base di un suo nuovo libro che verrà pubblicato in Francia a ottobre con un titolo molto attuale: «Uscire dal caos. Le crisi del Mediterran­eo e del Medio Oriente».

Cosa succede in Libia?

«C’è una situazione total- mente diversa rispetto ad altre guerre civili del mondo arabo come quelle in Siria o Yemen. Per il fatto che tutti i libici sono musulmani sunniti, all’eccezione dei berberi di Zuwara e Jebel Nafusa, che comunque rappresent­ano piccole minoranze. Ma il problema sono le frammentaz­ioni tribali, che fanno il gioco delle potenze straniere, arabe o europee. Dove ognuna ha la sua tribù protetta con l’ambizione del controllo del petrolio».

Dunque anche nell’era del mercato dei migranti il petrolio resta centrale?

«Certo, il petrolio libico è ottimo, facile da estrarre ed è molto vicino ai mercati delle economie europee, costituisc­e un obbiettivo strategico fondamenta­le. All’epoca di Gheddafi tutti i pozzi, la cui maggioranz­a si trova nelle regioni sud-orientali della Cire-

naica e una parte meno rilevante a ovest di Zintan, erano controllat­i col pugno di ferro dal potere centrale. Per contro, oggi nessuno si fida di nessuno. In Libia vale il classico paradigma di Hobbes, per cui ciascuno è contro ciascuno e tutti contro tutti. Ogni tribù spera di beneficiar­e del suo limitato controllo sul suo piccolo pozzo o oleodotto, pensa che una parte limitata sia comunque meglio che condivider­e il tutto. Perciò fanno guerra alla banca centrale o alla compagnia energetica nazionale. Ed ecco perché la ricostruzi­one di queste due istituzion­i è importante».

Le maggiori parti in causa?

«In Cirenaica il generale Khalifa Haftar ha il sostegno degli Emirati Arabi Uniti e dell’egitto. Il Cairo lo vede come un alleato contro i Fratelli Musulmani presenti a Tripoli. Questi ultimi sono aiutati da Turchia e Qatar».

Come vede il braccio di ferro tra Roma e Parigi?

«Molto grave. Tutta l’europa ne è penalizzat­a, sia per il fatto che perde il petrolio libico che per l’incapacità di controllar­e i migranti. L’italia, forte della sua tradizione coloniale nel rapporto con la regione di Tripoli e del capillare radicament­o di Eni sul territorio, guarda con inquietudi­ne alle iniziative di Emmanuel Macron per pacificare la Libia. Roma accusa il governo francese di fare il gioco della Total contro Eni. Queste frizioni sono intensific­ate da che Matteo Salvini ha incontrato Viktor Orbán a Milano. Per loro Macron è la nuova bestia nera da combattere. L’onu e le istituzion­i comunitari­e a Bruxelles devono aiutare a calmare lo scontro».

La Francia ha sostenuto Haftar. Ma questi sembra sia gravemente malato. Cosa sa in proposito?

«La medicina francese ha fatto davvero miracoli quando questa primavera Haftar è stato ricoverato a Parigi. Alcune fonti arabe molto serie lo davano per morto. Ora pare resuscitat­o. Ma il problema è un altro: non è possibile ricostruir­e la Libia penalizzan­do la Cirenaica. Lo aveva fatto Gheddafi, ma dal 2011 non è più fattibile. E l’europa deve lavorare per il processo di unificazio­ne, non per la divisione».

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L’accordoLa stretta di mano tra i due principali leader libici, Fayez al-sarraj e Khalifa Haftar nell’incontro del 25 luglio 2017 vicino Parigi voluto da Macron

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