Tiziano Terzani prima della sua Asia ovvero la scoperta dell’america
Escono per Longanesi le corrispondenze dagli Usa del 1967-69. Ecco l’incipit della prefazione
«M a lei, perché è così antiamericano?». Quando alla domanda di uno sconosciuto signore inglese, Tiziano rispose: «Forse perché non sono mai stato in America», aveva fatto il primo dei passi che ci portarono a vivere negli Stati Uniti per due anni: dal settembre 1967 al settembre 1969.
Era il novembre del ’66. I due si erano incontrati all’università americana Johns Hopkins di Bologna. Tiziano aveva 28 anni e da quattro si occupava del personale delle filiali estere della Olivetti, sempre sperando con tutto se stesso di poter lasciare la splendida azienda produttrice di macchine per scrivere di Ivrea per mettersi finalmente a fare il giornalista. Era andato a un convegno a Bologna in cerca di possibili futuri manager aziendali, mentre il signore inglese, un professore di Oxford, vi cercava per conto della Harkness Foundation di New York giovani promettenti ai quali proporre di candidarsi per una borsa di studio americana che prevedeva due anni di studi post universitari e un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti al fine di imparare a conoscerli.
«Vorrebbe andarci?» gli chiese. Tiziano si candidò e con nostro immenso sollievo vinse quella borsa di studio. Prima di partire per gli Stati Uniti si offrì come corrispondente (non retribuito) al settimanale politico di sinistra «l’astrolabio», per il quale già aveva scritto diversi articoli nel corso dei suoi ultimi viaggi olivettiani in Africa e Asia.
La borsa era lauta, generosissima. I borsisti potevano studiare quel che volevano, dovunque volessero; avevano anche il diritto di portare con sé la moglie. Tiziano scelse New York e decise d’iscriversi alla Columbia University a un master in Affari internazionali e storia della Cina moderna; e lì cominciò anche a studiare il cinese. Quei due anni negli Stati Uniti, che finirono per essere tra i più intensi e drammatici della storia americana contemporanea, hanno segnato l’inizio della sua vita di giornalista.
Salpammo da Genova il 30 agosto 1967 a bordo della «Leonardo da Vinci», una delle ultime grandi navi passeggeri del mondo. Con noi viaggiavano altri quattro giovani scelti dalla Fondazione, tra cui il fisico Remo Ruffini e il sociologo Enrico Pugliese dei quali diventammo amici. Dopo sei giorni di navigazione, prima di disperderci, eravamo tutti insieme in piedi sull’alto ponte della nave a veder sorgere dalle onde dell’atlantico la Statua della Libertà e lo skyline di Manhattan. Tre giorni dopo, noi due già correvamo alla conquista di New York.
« America, America! » invocava Joseph Roth nel suo Hotel Savoy degli anni Venti. Quella dei tanti emigranti che ci erano sbarcati, quella dei tanti perseguitati che l’hanno sempre sognata. Tiziano ci andava con il fucile spianato a verificarne le pecche: erano pochi allora i giovani europei di sinistra che su quelle fossero disposti a chiudere un occhio.
New York ci apparve subito bellissima, barocchi quasi i suoi grattacieli invecchiati sulla linguina di terra che si chiama Manhattan, fra i due fiumi, l’hudson e l’east River. Una linguina non tutta frequentabile, come avremmo visto poi.
La città era in ebollizione, piena di gente non conformista, di hippie, contestatori di sinistra, intellettuali agitati in mezzo a un mondo artistico e letterario fremente. Sembrava una città dove tutto si poteva e tutto si tentava, priva di tabù. Ma anche con solide istituzioni come la Harkness Foundation, appunto, alloggiata in un palazzo classicheggiante nell’elegante East Side, con banche colossali a Wall Street e un’università come la Columbia che era l’espressione del denaro e del potere come in Europa non sono mai esistiti.
A nord, la Columbia confinava con Harlem, il grande quartiere negro che dalla 125ª strada in su occupa buona parte dell’isola. E neanche quello squallore esisteva da noi. Costruita dagli olandesi quando New York si chiamava New Amsterdam, con solide case borghesi dagli ingressi importanti, Harlem era stata invasa dai negri (ai nostri tempi si chiamavano ancora così) che arrivavano dal Sud dopo l’abolizione dello schiavismo. Ora cadeva a pezzi. Negli anni Venti nei suoi club ci suonavano il jazz e il bel mondo attorno a Scott Fitzgerald ci andava a ballare. Ma erano finiti i bei giorni in cui i negri divertivano i bianchi. Slogan come Black Power! Power to the people! Black is beautiful! erano dappertutto. I bianchi a Harlem ci andavano ormai soltanto alla fine del mese per riscuotere gli affitti, visto che i padroni degli immobili erano ancora loro.
Altre parti di Manhattan invece, come l’east Side, il West Side e il Greenwich Village, ti invitavano a percorrerla a piedi in lungo e in largo, da est a ovest, da nord a sud.
Incredibile come andava vestita la gente! La subcultura degli hippie aveva contagiato un po’ tutti e i loro fantasiosi travestimenti, le gonne lunghe, gli strani cappelli di paglia o feltro, i pezzetti di pelliccia, i pizzi attaccati qua e là, gli scialli indiani, i fiori nei capelli — « I have a flower in my hair...» — tutto questo sembrava dire: arricchitevi, fate pure, ma senza di me! Soltanto i figli delle classi medie e alte potevano ovviamente permettersi di uscire dal sistema così, senza lavorare, vagando attraverso il Paese in cerca di Peace and Love: la pace e l’amore che non avevano avuto in famiglia.