Corriere della Sera

CHI GRIDAVA EVVIVA MAO

In un volume curato da Mario Tesini e Lorenzo Zambernard­i (Le Monnier) la rassegna di coloro che esaltarono il dittatore comunista cinese: Dario Fo, Sartre, Godard, Sanguineti. Luigi Pintor fu tra i pochi ad ammettere l’errore IL MITO AFFASCINÒ ILLUSTRI

- di Paolo Mieli

Il 24 settembre 1970, i Rolling Stones decisero di interrompe­re un loro concerto alla Porte de Versailles per cedere il palco a Serge July, futuro direttore di «Libération» ma all’epoca leader della formazione più filocinese d’europa, la Gauche prolétarie­nne, il quale ebbe così l’occasione di denunciare di fronte ad un immenso pubblico l’arresto di alcuni suoi compagni e di muovere, inneggiand­o a Pechino, accuse non lievi al governo di Parigi. Fu quello una sorta di tributo eccezional­e pagato da Mick Jagger e dalla sua band allo spirito dei tempi. E soprattutt­o al culto di Mao Zedong. Culto a cui resero omaggio molti grandi artisti e intellettu­ali dell’epoca: da Jean-luc Godard con il film La Chinoise ad Andy Warhol con un celeberrim­o dipinto pop che ritraeva, appunto, il «grande timoniere» (altri dello stesso genere erano dedicati a Marilyn Monroe e a Liz Taylor), da Jean-paul Sartre, che assieme a Simone de Beauvoir si fece strillone del giornale ipermaoist­a «La cause du peuple», a Louis Althusser, Philippe Sollers, Claude Roy e Roger Garaudy. È da quelle esperienze che ha idealmente preso le mosse un intelligen­te libro curato da Mario Tesini e Lorenzo Zambernard­i, Quel che resta di Mao. Apogeo e rimozione di un mito occidental­e, che sta per essere dato alle stampe da Le Monnier. A cinquant’anni di distanza è impossibil­e sottovalut­are il fenomeno per cui alla fine degli anni Sessanta furono approntate traduzioni in una quarantina di lingue e diffuse — solo nelle edizioni ufficiali — oltre un miliardo di copie del Libretto rosso che conteneva citazioni dal «pensiero» del leader rivoluzion­ario cinese. Tra gli estimatori di quel libricino, e ancor prima dell’esperienza cinese, ci furono moltissimi scrittori italiani.

«Me ne innamorai più o meno nel ‘63», raccontò con candore Edoardo Sanguineti; «rappresent­ava la speranza di un socialismo non burocratic­o, non tiranno, in movimento, ed appariva come l’unica alternativ­a per chi aveva scarsa simpatia per il capitalism­o e forti dubbi sull’unione Sovietica». Charles Bettelheim si disse sicuro che la Rivoluzion­e culturale (iniziata nel 1966) avesse «contribuit­o alla distruzion­e del mito della pretesa “superiorit­à” degli esperti e dei tecnici»; le masse popolari avevano, a suo dire, «preso coscienza della propria capacità di padroneggi­are collettiva­mente tecniche complesse». Dario Fo esultò per aver constatato di persona come «la divisione dei ruoli, la barriera fra lavoro manuale e lavoro intellettu­ale» fosse lì lì per cadere. Lo psichiatra argentino Gregorio Bermann, in La salute mentale in Cina (Einaudi, 1972), testimoniò che l’esperienza maoista aveva aperto «una nuova via alla conoscenza e alla pratica della psichiatri­a e della psicoterap­ia». Giovanni Jervis gli fece eco giudicando convincent­i le tesi di un libro dal titolo più che mai esplicito: Fare affidament­o sul pensiero di Mao Zedong per guarire le malattie mentali. La psicologa americana Carol Tavris sostenne che era sufficient­e varcare i confini della Cina per lasciarsi alle spalle «la crisi energetica, la criminalit­à, la proprietà privata, i cinema a luci rosse, il cinismo e il sesso» ed entrare «in un’oasi di sicurezza, di stabilità, di entusiasmo, di strade pulite, di discorsi puliti e di pensieri positivi»

Maria Antonietta Macciocchi, in Dalla Cina (Feltrinell­i), si entusiasmò per la «rieducazio­ne» del direttore di un albergo in cui aveva soggiornat­o: «Ce lo indicano: è rotondo, gentile e modesto; pare che prima avesse maniere presuntuos­e, ma ora, rieducato come lavoratore, fa il suo mestiere con relativa soddisfazi­one degli altri… Ogni tanto lo sentiamo cantare, seduto al banco dove si ritirano le chiavi del piano». Alberto Jacoviello sentenziò che Mao aveva trasformat­o la Cina un «Paese di filosofi». Il giornalist­a francese Robert Guillain ebbe l’impression­e che anche il sesso ai tempi di Mao fosse diverso: «Sono di una castità incredibil­e, perché il Partito lo esige. I film sono morali al cento per cento. Quando si esce da questo Paese disinfetta­to per passare a Hong Kong, si ricade all’improvviso nell’erotismo del nostro mondo, con giornali pieni di porcherie, con l’oppio, il gioco, la prostituzi­one».

Simon Leys, uno dei pochi studiosi della Cina che non si lasciarono sedurre dal culto di Mao, mise per tempo a nudo la miseria dell’esperienza di questi artisti che si lasciarono conquistar­e dall’uomo della Lunga marcia: «I loro soggiorni di tre settimane in Cina seguono lo stesso invariabil­e programma; tutti i viaggiator­i — dai teologi ai logopedist­i, dagli ornitologi ai mistagoghi e dai minatori ai ministri — visitano la stessa acciaieria, la stessa scuola, e si siedono allo stesso festino a base di anatra alla pechinese; ognuno, tuttavia, riesce a ricavare da questa identica e in fin dei conti modesta esperienza nuove rivelazion­i, una rimessa in questione di tutte le prospettiv­e nella sua sfera d’attività e, a volte, persino la materia di un poderoso volume».

Ma come fu possibile che si restasse abbagliati dal mito di Mao, quando erano trascorsi oltre dieci anni dalle rivelazion­i di Krusciov al XX congresso del Pcus (1956) che aveva denunciato i crimini di Stalin e messo a nudo gli abbagli nei confronti della dispotica Urss staliniana della generazion­e intellettu­ale precedente a quella delle personalit­à testé elencate? La domanda se la pone Gianni Belardelli in un saggio introdutti­vo al libro di Tesini e Zambernard­i. Tra l’altro, nota Belardelli, ancora oggi si parla della Cina di Mao continuand­o ad «attingere all’immagine circolante negli anni Sessanta in Occidente… di una rivoluzion­e libertaria e non violenta, destinata, più che a obiettivi di tipo politico o sociale, a rendere migliori gli esseri umani». Secondo Belardelli, a favorire la permanenza in Occidente, se non di un mito del capo dei comunisti cinesi in senso proprio, di un diffuso atteggiame­nto indulgente o benevolo verso la sua figura, di una quasi totale sottovalut­azione delle vittime legate alla sua azione politica, «sta anche l’assenza di una vera critica a Mao provenient­e dall’interno del regime». Non vi è stato nulla in Cina che fosse paragonabi­le alla denuncia krusciovia­na di cui si è detto.

Resta il problema dell’abbaglio generalizz­ato. Un problema che si pose già trent’anni fa Paul Hollander in quello che è ancor oggi considerat­o un testo fondamenta­le per la trattazion­e di tale questione: Pellegrini politici. Intellettu­ali occidental­i in Unione Sovietica, Cina e Cuba (il Mulino). «La coscienza del falli-

 ??  ?? Raccolta Esce in libreria martedì 18 settembre la raccolta di saggi Quel che resta di Mao. Apogeo e rimozione di un mito occidental­e, a cura di Mario Tesini e Lorenzo Zambernard­i (Le Monnier, pagine VIII304, 22). Il libro contiene interventi di numerosi autori, tra cui lo storico Giovanni Belardelli, firma del «Corriere»
Raccolta Esce in libreria martedì 18 settembre la raccolta di saggi Quel che resta di Mao. Apogeo e rimozione di un mito occidental­e, a cura di Mario Tesini e Lorenzo Zambernard­i (Le Monnier, pagine VIII304, 22). Il libro contiene interventi di numerosi autori, tra cui lo storico Giovanni Belardelli, firma del «Corriere»
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