In 5 Comuni marchigiani il festival itinerante dedicato alle traduzioni
mento sovietico», ha scritto Hollander, «invece che creare una riserva di scetticismo in merito ai progetti di ingegneria sociale e di sperimentazione su larga scala, ingigantiva al contrario il fascino della Cina».
Ancora quando Mao morì, il 9 settembre del 1976, i toni dei giornali italiani furono oltremodo generosi. Editoriali di grande apprezzamento nei confronti del leader del Partito comunista cinese comparvero sulla «Stampa» (a firma di Alberto Cavallari e Furio Colombo) e sul «Messaggero». Più trattenuti gli articoli di fondo su «Repubblica» (Tiziano Terzani) e quelli del «Corriere della Sera». Quasi irridenti, quelli sul «Giornale» (Indro Montanelli scrisse del «pensiero» di Mao che aveva mandato «in visibilio tanti imbecilli nostrani»). «Il manifesto» giudicò Mao, per la penna di Rossana Rossanda, «più simile a Marx che a Lenin», mentre K.S. Karol metteva in guardia da Deng, «revisionista non pentito che è andato contro le giuste conclusioni della Rivoluzione culturale proletaria». Più cauti i giornali comunisti, in particolare «Rinascita», su cui comparve un articolo di Giuseppe Vacca che spiegava che cosa i suoi coetanei avevano «creduto di vedere» nella rivoluzione maoista. Sull’«avanti!» Da oggi fino al 9 settembre si svolge in cinque Comuni della Valdaso, in provincia di Fermo, nelle Marche, Bookmarchs. L’altra voce, il festival dedicato alle traduzioni che si svolge in forma itinerante, partendo dal Comune di Petritoli per poi toccare Campofilone, Lapedona, Moresco e Ponzano (ogni tappa prevede due eventi al giorno). La manifestazione dedicata alle traduzioni e ai traduttori editoriali — con la direzione di d
A Parigi
Nel 1970 i Rolling Stones interruppero un loro concerto per consentire a Serge July di fare un discorso inneggiante al regime di Pechino
A Lima
Mario Vargas Llosa restò colpito quando i maoisti del Perù impiccarono dei cani con appesi cartelli su cui era scritto il nome del «revisionista» Deng piansero Mao Pietro Nenni, che lodò la sua concezione di una «rivoluzione da ricondurre sempre alla misura umana per evitare il rischio di cadere nella tirannia», e Bettino Craxi, che fece una previsione: «Il segno che Mao lascia nella vita del suo popolo e in quella dell’umanità non sarà cancellato dal tempo, anzi è destinato a divenire più grande e marcato via via che la storia gli renderà per intero le ragioni del suo pensiero e della sua opera».
IStella Sacchini e Fabio Pedone — è organizzata dall’associazione culturale Spaesamenti insieme con l’agenzia Vivere in Valdaso e quest’anno apre il programma a un’edizione nazionale dedicata alla memoria dello scrittore Alessandro Leogrande (19772017), recentemente scomparso. Il tema ruota intorno al sottotitolo del festival, L’altra voce, per porre al centro del libro non l’autore ma il suo interprete, capace di dargli nuova
n generale il mondo politico, in particolare quello cattolico, si vestì a lutto: Raniero La Valle ne parlò come di un «eroe del Vecchio Testamento»; Benigno Zaccagnini lodò la sua «riscoperta politica e morale dell’uomo cinese riportato — dopo un periodo di gravi mortificazioni — alla dignità essenziale di una riconquistata autonomia politica, culturale e spirituale»; Vittorino Colombo, presidente dell’istituto italo-cinese, garantì della «profonda riconoscenza che il popolo cinese riservava al suo prestigioso leader».
Tesini e Zambernardi notano due articoli che invece furono particolarmente corrosivi nei confronti della Cina maoista. Il primo è, sul «Corriere», di Lietta Tornabuoni. «Son diventati Uno dei famosi ritratti di Mao Zedong (18931976) realizzati dal maestro americano della Pop Art Andy Warhol (1928-1987). Il capo dei comunisti cinesi giunse al potere nel 1949 , dopo una lunga e vittoriosa lotta contro i nazionalisti
tutti maoisti», scrive la giornalista, «il dolore dei politici italiani, percossi e attoniti alla scomparsa del grande leader antisovietico impressiona per la sua unanimità»; e anche per come «nei commenti funebri rinasca irresistibile la retorica del demiurgo, dell’uomo che da solo muta il corso della storia». L’altro è, su «Repubblica», di Giorgio Bocca: «È certamente edificante la lettura del Mao pedagogo che esorta i suoi allievi allo studio e all’informazione: ma, lui al potere in uno Stato socialista, i cinesi sono stati senza giornali degni del nome e non li hanno informati neppure che un uomo era sbarcato sulla Luna». Talché, secondo Tesini e Zambernardi, bisogna rendere a Bocca l’onore del riconoscimento «di aver scritto sulle pagine di un quotidiano che nel suo primo anno di vita procedeva esitante tra la volontà di rappresentare una moderna sinistra riformista e le simpatie per l’insorgenza sessantottina, protrattasi in Italia per un intero decennio, cose in perfetta coerenza con quanto affermato a molti anni di distanza». Tra tanti «maoisti più o meno ravveduti», proseguono i due curatori, Bocca «si sarebbe dimostrato un critico non solo tempestivo, ma anche tenace, del processo di trasformazione di un uomo e di un regime in un mito politico».
Qvita nella lingua d’arrivo. Un autore quasi invisibile che deve saper dosare rispetto per il lavoro originale e coscienza creativa nell’adattare il testo. Domani alle 21.30 (a Petritoli) l’evento Oltre il confine ospiterà l’inglese Richard Dixon (in dialogo con lo scrittore Adrián N. Bravi) che ha tradotto dall’italiano anche Giacomo Leopardi, gli ultimi lavori di Umberto Eco, Antonio Moresco e Roberto Calasso.
ualcuno, però, aveva nutrito dei dubbi (non certo paragonabili per sistematicità a quelli di Bocca) fin dall’inizio. Come Goffredo Parise che, in Cara Cina (Longanesi), manifestò il sospetto che l’interprete di cui disponeva a Pechino non esaurisse la sua funzione nel tradurre le parole delle persone incontrate e che la commovente storia di una donna che riferiva delle drammatiche condizioni della sua infanzia sotto il precedente regime fosse una recita a beneficio del visitatore straniero (l’aveva letta, identica, in un libro che aveva portato con sé). Come Alberto Moravia che, pur entusiasta del viaggio nella Cina di Mao, mise in chiaro il limite della propria esperienza in quelle terre lontane: «Non pretendo certo di conoscere la folla cinese nella maniera, diciamo così, tradizionale; sono stato troppo poco in Cina. Ma l’ho guardata, questo sì. E forse, limitandomi a guardarla, l’ho in fondo conosciuta quasi come vi fossi vissuto in mezzo degli anni». O come Mario Vargas Llosa, che in Avventure della ragazza cattiva (Einaudi) ha raccontato la pessima impressione che gli fece il fatto che a Lima alcuni sconosciuti maoisti avessero impiccato, ai pali della luce nel centro della capitale, dei poveri cani a cui erano attaccati cartelli con il nome di Deng Xiaoping, accusato di aver tradito lo spirito di Mao.
In Italia sono stati pochissimi a riconoscere di essersi sbagliati. Luigi Pintor ebbe il coraggio qualche anno dopo di ammettere la cantonata. «Fu un errore», confidò a Simonetta Fiori, «una clamorosa scivolata, causata dalla necessità di sostituire quello sovietico con altri modelli internazionali; restammo abbagliati dalle suggestioni della rivoluzione cinese, cui attribuimmo — sbagliando — valenze liberatrici». Tra coloro che anche dopo la caduta del muro di Berlino hanno continuato a dirsi comunisti, Pintor è stato l’unico (o quasi) a non aver cercato attenuanti.