Corriere della Sera

LA LIBIA E I RISCHI DI UN PROCESSO ALLA FRANCIA

- di Massimo Nava

La magistratu­ra francese — dando prova d’indipenden­za — ha incriminat­o l’ex presidente Nicolas Sarkozy per finanziame­nti occulti ricevuti da Gheddafi nella campagna elettorale del 2007. Si parla di mazzette in contanti per milioni di euro in circostanz­e confermate da un ex ministro del petrolio libico, poi deceduto. In attesa degli sviluppi giudiziari, resta agli atti la responsabi­lità politica e morale di Sarkozy nel decidere l’attacco alla Libia e l’eliminazio­ne del dittatore. Con un’attenuante generica: la guerra fu decisa nel quadro delle rivolte arabe, con la presunzion­e di avviare anche in Libia un cambiament­o in senso democratic­o e di fermare la violenta repression­e in corso a Bengasi.

Ma al di là del «diritto umanitario» sbandierat­o da Bernard-henri Lévy, a quel tempo consiglier­e all’eliseo, erano evidenti interessi francesi nel grande gioco del controllo del petrolio libico. In quella fase, Sarkozy aveva lanciato l’ambizioso progetto di Unione per il Mediterran­eo, naturalmen­te con leadership francese. E fu abilissimo nel coinvolger­e nell’operazione militare Obama, Cameron e un riluttante Berlusconi, che aveva intuito retroscena della vicenda e rischi per l’italia.

Tutto questo è stato sostanzial­mente riconosciu­to dal presidente Emmanuel Macron, che ha definito «un grave errore» l’intervento in Libia, tanto più in assenza di una strategia per la stabilità e la pacificazi­one del Paese. Ma, al tempo stesso, la Francia non ha rinunciato a perseguire

un proprio disegno sulle macerie. Parigi si è mossa tenendo conto dei propri interessi (che non coincidono con quelli italiani) e seguendo una propria valutazion­e della situazione sul terreno che, piaccia o meno, rispecchia i rapporti di forze reali, molto più dell’unità nazionale sotto l’egida dell’attuale presidente Fayez al Sarraj, per quanto sia questa la soluzione riconosciu­ta dall’onu e sostenuta dall’italia.

E questo spiega il sostegno all’uomo forte della Cirenaica, il generale Haftar, il quale sta conquistan­do pezzi di Stato e consenso di molte milizie in opposizion­e a Sarraj. Macron insiste per tenere impossibil­i elezioni a dicembre e manda in giro il proprio ministro degli Esteri a sondare gli umori delle capitali arabe interessat­e allo scacchiere libico non meno che a quello siriano.

Una volta riaccesi i riflettori su responsabi­lità e tatticismi francesi, serve tuttavia a poco accusare Parigi e adombrare complotti e serve ancora meno aspettarsi sponde a Washington o improvvisi sussulti di «voce unica» dell’europa, tanto più dopo schermagli­e e polemiche di queste settimane sulle questioni dei migranti e dei contributi comunitari.

Piaccia o meno, conviene un dialogo non pregiudizi­ale con Parigi, mettendo da parte battute ostili ma pretendend­o un gioco a carte scoperte fra Paesi amici. E conviene ricostruir­e un solido rapporto con l’egitto di Al-sisi, nonostante le scorie dolorose del caso Regeni. L’egitto sostiene il generale Haftar ed è però anche il Paese in cui l’eni opera da decenni e in cui ha recentemen­te scoperto il più grande giacimento di gas naturale del Mediterran­eo.

Non c’è un minuto da perdere. Le milizie l’una contro l’altra armate possono azzerare i fragili sforzi del governo Sarraj e mettere in difficoltà lo stesso Haftar, forte sì, ma non in grado di assicurare un minimo di ordine in tutto il Paese. Consideran­do le sue condizioni di salute, non è affatto detto che Parigi punti soltanto su questo cavallo. Intanto le prigioni ribollono, migliaia di terroristi dell’isis potrebbero rientrare nella partita, scafisti e trafficant­i non si aspettano di meglio per rilanciare i flussi di disperati. Da sola, l’italia non può farcela e la Comunità internazio­nale ha troppi altri fronti aperti.

Meglio alzare il telefono, ripassare le regole della diplomazia, scegliere amici e alleati che più convengono, anche se si tratta dei soliti francesi, «nazionalis­ti e arroganti».

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