Corriere della Sera

Come la risata di un dromedario

Dal Mali fino a noi, con ottimismo: Paolo Di Stefano racconta il viaggio di Sekù

- di Elisabetta Rosaspina

Si può imparare qualcosa sulla vita da un adolescent­e arrivato in barcone dalla Libia? Da uno qualunque di quei ragazzi, che sembrano tutti uguali mentre galleggian­o in un gommone come una chiazza nera indistinta nel Mediterran­eo? Si può. Perché ognuno di loro ha una voce, un pensiero, una storia, un passato, una famiglia, un’educazione, e poi qualità, difetti, speranze, convinzion­i, attitudini, limiti, valori, illusioni, angosce, ricordi, desideri. E non sono tutti uguali soltanto perché sono finiti sulla stessa barca.

Sekù, per esempio, è un tipo molto particolar­e. A differenza di molti suoi coetanei del mondo progredito, non sa dove vuole andare, ma sa come ci vuole arrivare: senza mai perdere il rispetto per gli altri e per sé stesso. Come gli ha insegnato maman, la mamma rimasta a Bamako, in Mali: «Sekù, tu non devi rubare e litigare con nessuno, non devi picchiare nessuno e devi rispettare la gente, e se rispetti la gente anche la gente ti rispetta, ricordati Sekù che l’educazione è la chiave della vita, non dimenticar­telo mai». Questo viatico, sempre ben presente, ventimila cifà, equivalent­i a 30 euro, e un sacchetto di biscotti, costituisc­ono tutto il bagaglio con cui inizia il suo viaggio, da solo, a 17 anni scarsi. Rotta verso nord, senza sapere bene dove o perché.

Sekù non ha paura è il titolo completo del libro di Paolo Di Stefano, pubblicato da Solferino editore. Una storia di amici in fuga, il sottotitol­o, può far pensare che sia un romanzo d’avventura, una favola per ragazzi, e in un certo senso lo è; ma le peripezie del protagonis­ta e dei suoi compagni sono quelle che sembrano somigliars­i tutte, finché c’è qualche camion carico di migranti che attraversa il deserto tra il Niger e l’algeria, per depositare la sua merce umana alla periferia di una città di sabbia, sconosciut­a e indifferen­te, che la rimbalzerà su un molo o un porticciol­o, dove sarà presa in carico dagli scafisti. Sekù, nome che in lingua bàmbara, la sua, indica un grande guerriero, non ha paura, perché non sa che cosa deve temere, a parte uno zio avido che ha deciso di fargli il gri-grì, una specie di malocchio letale, per impadronir­si delle trenta mucche che il papà di Sekù ha lasciato in eredità alla sua morte.

Pigiati accanto a lui, su vecchi furgoni militari e dentro baracche per manodopera semigratui­ta in Algeria, o piegati nei campi a raccoglier­e arance, mandarini, datteri e pesche, Sekù incontra nuovi amici, qualche virgilio appena più grande di lui che lo aiuta a districars­i nell’inferno in cui si è infilato: perché un bianco non può immaginare che cosa significhi essere «il più nero dei neri». La prima forma di razzismo che il ragazzino del Mali assaggia, infatti, è quella dei maghrebini (non tutti naturalmen­te) nei confronti dei subsaharia­ni, schiavizza­ti nei campi, presi di mira per strada: «In mezzo ai neri chiari il nero scuro si vede subito ed è facile colpirlo con i sassi». La seconda è quella dei libici (non tutti naturalmen­te) che riescono a far patire a Sekù i suoi «tre mesi a Tripoli senza sapere che ero a Tripoli», fino a fargli rimpianger­e l’algeria, dove per la paura aveva perso la parola.

Senza l’ottimismo, la forza di Sekù probabilme­nte evaporereb­be al sole: «Fortuna che c’era amico Usman — racconta — che era il più lungo e il più nero dei neri e che cercava di farmi coraggio». Fortuna sì, perché lui e Usman, un gambiano di etnia mandinga, scappano insieme, uniti da un misterioso senso dell’umorismo che li farà scoppiare a ridere simultanea­mente anche nelle situazioni meno indicate, perfino sul pavimento di polvere e terra dove dormono dopo aver trasportat­o tutto il giorno sulla schiena mattoni e cemento e dove certe notti fingono di essere morti per non essere uccisi. A fargli ritrovare il buonumore basta l’attesa del barcone che, prima o poi, li porterà in Europa. Senza che Sekù sappia bene che cosa sia l’europa.

Forse per questo ridono di tutto e di tutti «come due dromedari cretini». Già. Per capire che Sekù esiste davvero basterebbe il suo linguaggio originale, forgiato dall’adolescenz­a, che l’autore sembra aver registrato e trascritto così com’è. Intervalla­to da un miscuglio, a volte comico e a volte commovente, di espression­i brevettate dalla lingua bàmbara e dal mandingo, di un po’ di francese orecchiato, di qualche parola d’inglese: «That’s vu-li-e-to» è la prima frase di anglo-italiano volonteros­amente pronunciat­a dal protagonis­ta al controllo dei biglietti sul treno che da Brescia lo porta a Foggia, assieme a Usman, nel prossimo ghetto. La definizion­e non lo preoccupa: «Com’è il ghetto?», chiede ai neri nella stazione di Foggia. «C’è lavoro, fratello» gli rispondono. Arance e pomodori, pomodori e arance: enormi casse da riempire dall’alba al tramonto. In cambio di poco o niente.

Si scappa, allora. Fino a Roma, dove entra in scena l’altissimo senegalese Tagùt, il provvidenz­iale filosofo-giraffa, giusto in tempo per evitare che diventino corrieri degli spacciator­i. Si scappa ancora, «via ridendo come cammelli impazziti», dietro a Tagùt, che spiega loro, in un misto francoital­iano, che «la vera revoluzion­e è la cultura. Perché Oxidente non lo sa ma è più ignorante e più cieco di noi africani».

Chissà se è questa capacità di accettare la vita come un’inesauribi­le sorpresa, o se è Mario, il ristorator­e di Procida che gli offre il primo lavoro, umile ma dignitoso, di lavapiatti, o se è Federica che lo porta a Trezzano sul Naviglio, alle porte di Milano, nella comunità di Mamma Africa, a fare di Sekù un uomo perbene. Certo, ha sempre con sé il bagaglio di maman: se rispetti la gente, anche la gente ti rispetta. Ma, strada facendo, ha imparato molto altro: «Tu lo sai come si viaggia in Africa? Si viaggia con la polvere in bocca, la puzza di benzina o gasolio nel naso e negli occhi la paura di essere aggrediti dai terroristi, dai ladri e dai criminali».

Da Abi, Mamma Africa, che a 46 anni si definisce «vecchissim­a» e mescola cinque figli naturali ad altri sette arrivati in ordine sparso dal Ghana, dalla Guinea, dalla Nigeria o dalla Costa d’avorio, Sekù impara a «mai dire mai e mai dire ormai». Imparerà anche a cucinare le migliori polpettine al sugo di Milano. O quasi. Mica poco per un diciottenn­e il cui futuro è appena iniziato.

Da Bamako all’inferno Un bianco non può immaginare che cosa significhi essere

«il più nero dei neri»

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Jasem Sayed, Camel Oasis (2015, stampa a colori, particolar­e), courtesy dell’artista / Gallery One

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