Come la risata di un dromedario
Dal Mali fino a noi, con ottimismo: Paolo Di Stefano racconta il viaggio di Sekù
Si può imparare qualcosa sulla vita da un adolescente arrivato in barcone dalla Libia? Da uno qualunque di quei ragazzi, che sembrano tutti uguali mentre galleggiano in un gommone come una chiazza nera indistinta nel Mediterraneo? Si può. Perché ognuno di loro ha una voce, un pensiero, una storia, un passato, una famiglia, un’educazione, e poi qualità, difetti, speranze, convinzioni, attitudini, limiti, valori, illusioni, angosce, ricordi, desideri. E non sono tutti uguali soltanto perché sono finiti sulla stessa barca.
Sekù, per esempio, è un tipo molto particolare. A differenza di molti suoi coetanei del mondo progredito, non sa dove vuole andare, ma sa come ci vuole arrivare: senza mai perdere il rispetto per gli altri e per sé stesso. Come gli ha insegnato maman, la mamma rimasta a Bamako, in Mali: «Sekù, tu non devi rubare e litigare con nessuno, non devi picchiare nessuno e devi rispettare la gente, e se rispetti la gente anche la gente ti rispetta, ricordati Sekù che l’educazione è la chiave della vita, non dimenticartelo mai». Questo viatico, sempre ben presente, ventimila cifà, equivalenti a 30 euro, e un sacchetto di biscotti, costituiscono tutto il bagaglio con cui inizia il suo viaggio, da solo, a 17 anni scarsi. Rotta verso nord, senza sapere bene dove o perché.
Sekù non ha paura è il titolo completo del libro di Paolo Di Stefano, pubblicato da Solferino editore. Una storia di amici in fuga, il sottotitolo, può far pensare che sia un romanzo d’avventura, una favola per ragazzi, e in un certo senso lo è; ma le peripezie del protagonista e dei suoi compagni sono quelle che sembrano somigliarsi tutte, finché c’è qualche camion carico di migranti che attraversa il deserto tra il Niger e l’algeria, per depositare la sua merce umana alla periferia di una città di sabbia, sconosciuta e indifferente, che la rimbalzerà su un molo o un porticciolo, dove sarà presa in carico dagli scafisti. Sekù, nome che in lingua bàmbara, la sua, indica un grande guerriero, non ha paura, perché non sa che cosa deve temere, a parte uno zio avido che ha deciso di fargli il gri-grì, una specie di malocchio letale, per impadronirsi delle trenta mucche che il papà di Sekù ha lasciato in eredità alla sua morte.
Pigiati accanto a lui, su vecchi furgoni militari e dentro baracche per manodopera semigratuita in Algeria, o piegati nei campi a raccogliere arance, mandarini, datteri e pesche, Sekù incontra nuovi amici, qualche virgilio appena più grande di lui che lo aiuta a districarsi nell’inferno in cui si è infilato: perché un bianco non può immaginare che cosa significhi essere «il più nero dei neri». La prima forma di razzismo che il ragazzino del Mali assaggia, infatti, è quella dei maghrebini (non tutti naturalmente) nei confronti dei subsahariani, schiavizzati nei campi, presi di mira per strada: «In mezzo ai neri chiari il nero scuro si vede subito ed è facile colpirlo con i sassi». La seconda è quella dei libici (non tutti naturalmente) che riescono a far patire a Sekù i suoi «tre mesi a Tripoli senza sapere che ero a Tripoli», fino a fargli rimpiangere l’algeria, dove per la paura aveva perso la parola.
Senza l’ottimismo, la forza di Sekù probabilmente evaporerebbe al sole: «Fortuna che c’era amico Usman — racconta — che era il più lungo e il più nero dei neri e che cercava di farmi coraggio». Fortuna sì, perché lui e Usman, un gambiano di etnia mandinga, scappano insieme, uniti da un misterioso senso dell’umorismo che li farà scoppiare a ridere simultaneamente anche nelle situazioni meno indicate, perfino sul pavimento di polvere e terra dove dormono dopo aver trasportato tutto il giorno sulla schiena mattoni e cemento e dove certe notti fingono di essere morti per non essere uccisi. A fargli ritrovare il buonumore basta l’attesa del barcone che, prima o poi, li porterà in Europa. Senza che Sekù sappia bene che cosa sia l’europa.
Forse per questo ridono di tutto e di tutti «come due dromedari cretini». Già. Per capire che Sekù esiste davvero basterebbe il suo linguaggio originale, forgiato dall’adolescenza, che l’autore sembra aver registrato e trascritto così com’è. Intervallato da un miscuglio, a volte comico e a volte commovente, di espressioni brevettate dalla lingua bàmbara e dal mandingo, di un po’ di francese orecchiato, di qualche parola d’inglese: «That’s vu-li-e-to» è la prima frase di anglo-italiano volonterosamente pronunciata dal protagonista al controllo dei biglietti sul treno che da Brescia lo porta a Foggia, assieme a Usman, nel prossimo ghetto. La definizione non lo preoccupa: «Com’è il ghetto?», chiede ai neri nella stazione di Foggia. «C’è lavoro, fratello» gli rispondono. Arance e pomodori, pomodori e arance: enormi casse da riempire dall’alba al tramonto. In cambio di poco o niente.
Si scappa, allora. Fino a Roma, dove entra in scena l’altissimo senegalese Tagùt, il provvidenziale filosofo-giraffa, giusto in tempo per evitare che diventino corrieri degli spacciatori. Si scappa ancora, «via ridendo come cammelli impazziti», dietro a Tagùt, che spiega loro, in un misto francoitaliano, che «la vera revoluzione è la cultura. Perché Oxidente non lo sa ma è più ignorante e più cieco di noi africani».
Chissà se è questa capacità di accettare la vita come un’inesauribile sorpresa, o se è Mario, il ristoratore di Procida che gli offre il primo lavoro, umile ma dignitoso, di lavapiatti, o se è Federica che lo porta a Trezzano sul Naviglio, alle porte di Milano, nella comunità di Mamma Africa, a fare di Sekù un uomo perbene. Certo, ha sempre con sé il bagaglio di maman: se rispetti la gente, anche la gente ti rispetta. Ma, strada facendo, ha imparato molto altro: «Tu lo sai come si viaggia in Africa? Si viaggia con la polvere in bocca, la puzza di benzina o gasolio nel naso e negli occhi la paura di essere aggrediti dai terroristi, dai ladri e dai criminali».
Da Abi, Mamma Africa, che a 46 anni si definisce «vecchissima» e mescola cinque figli naturali ad altri sette arrivati in ordine sparso dal Ghana, dalla Guinea, dalla Nigeria o dalla Costa d’avorio, Sekù impara a «mai dire mai e mai dire ormai». Imparerà anche a cucinare le migliori polpettine al sugo di Milano. O quasi. Mica poco per un diciottenne il cui futuro è appena iniziato.
Da Bamako all’inferno Un bianco non può immaginare che cosa significhi essere
«il più nero dei neri»