Dove cerchiamo la felicità, adesso Nelle relazioni (non nell’avere)
Dove sta — e com’è — la felicità, adesso? Da questa domanda è partita, in marzo, l’inchiesta che arriverà domani alla Triennale di Milano per aprirsi al confronto con le lettrici e i lettori durante la quinta edizione del Tempo delle Donne.
L’inchiesta che verrà presentata domani alla quinta edizione del «Tempo delle donne» ci dice che le relazioni determinano lo stato di benessere (o di malessere) molto più delle altre variabili dell’esistenza
Da questa domanda, e da un’ipotesi di risposta: che in un’epoca di lavori & amori precari la ricerca del benessere soggettivo avesse rinunciato a progetti «lunghi» (la carriera, il matrimonio, più figli, investimenti programmati con l’obiettivo di allargare il perimetro delle proprietà) per inseguire invece l’attimo, ritrovando il passo più corto di generazioni che guerre e malattie inducevano a non sfidare troppo il destino. Quella contemporanea è stata più volte definita l’età dell’ «incertezza», che l’enciclopedia Treccani traduce in «stato più o meno passeggero di dubbio circa la verità di qualche cosa o i futuri sviluppi di una situazione». E abbiamo forse la sensazione di essere già oltre: ci sembra che quello «stato passeggero» sia diventato una condizione definitiva.
In tutto questo, che cosa protegge le nostre giornate e le nostre notti dalla paura di non farcela? In quali spazi scorgiamo un centro di gravità e di felicità se non permanente almeno «sufficientemente buono», per giocare con le parole che Donald Winnicott usò per raccontare le madri capaci di salvarti la vita?
Per trovare quegli spazi, nel turbamento delle porte chiuse o nell’ebbrezza delle possibilità, c’è bisogno di una bussola. La sociologia della felicità ne usa una che gira su tre parole: essere, avere, amare. La propose negli anni 90 Erik Allardt. Lo studioso finlandese giunse alla conclusione che il nostro «star bene» poggia su tre pilastri: quello dell’identità e della auto-realizzazione (essere); quello delle risorse e delle opportunità (avere); quello delle emozioni e delle relazioni con gli altri (amare).
Proviamo a usare la bussola. Noi «siamo», innanzitutto, il nostro corpo - del quale è fondamentale curare lo stato di salute e di forza. Ciò che ci definisce, però, è la nostra identità: la concezione che abbiamo di noi stessi, le cose a cui teniamo e aspiriamo. È il pilastro dell’essere e del divenire. La felicità può presentarsi all’improvviso, ma anche quando dura solo un momento ha sempre un passato — la traiettoria che ci ha portato qui — e un futuro — la realtà che im- maginiamo davanti. Per benessere ci servono, poi, risorse e opportunità: il pilastro dell’avere. Quanto abbiamo non dipende solo dalle nostre scelte, ma anche dal contesto. Lo Stato, per esempio, ha il compito di aiutarci — tutti, uomini e donne, equamente — a cercare e a conseguire la felicità. Il che implica, naturalmente, la nostra disponibilità a «vedere» e sostenere questo compito. Nella sfera dell’avere, un certo grado di prosperità collettiva è precondizione per le soddisfazioni private. C’è, infine, il terzo pilastro: quello delle emozioni, delle nostre relazioni con gli altri. Non si è felici senza passioni, affetti, amicizie.
La nostra indagine a puntate attraverso molti piani di esplorazione — il lavoro, lo sport, la coppia, i single, la genitorialità, il rapporto con gli animali, i soldi, l’invecchiamento — ripropone come sintesi quanto risulta dalle principali ricerche: la dimensione dell’amare è diventata decisiva, supera l’avere e anche l’essere. Per noi, oggi, le relazioni determinano lo stato di benessere (o malessere) molto più delle altre variabili dell’esistenza. Coltiviamo questa aspirazione — costruire una rete fitta di rapporti ai quali affidare «le nostri sorti» — e tuttavia bruciamo la terra in cui questo terzo pilastro affonda: il tempo. È vero, la ruota della fortuna contribuisce o interferisce nella sfera dell’amare.
Punto di arrivo Riprendersi il tempo diventa una risposta non arrendevole agli squilibri del mondo neo-moderno
Siamo però noi a scegliere fra i tanti estranei che di volta in volta incontriamo. E per trasformare un incontro in un legame ci vogliono impegno, pazienza, investimento emotivo. Qui sta il punto di caduta, la contraddizione che indebolisce le nostre «percentuali» di felicità. L’elastico del tempo tra linea di partenza e arrivo desiderato si è fatto troppo teso. Non è un caso che in Svezia il governo socialdemocratico uscente abbia lanciato l’idea, in zona Cesarini pre-voto, di una settimana di ferie extra all’anno per chi ha figli piccoli. E non è un caso che nelle aziende cresca la richiesta di un sistema di prestazioni aggiuntive e organizzazione del lavoro che garantisca più libertà personale, an- che a scapito di scatti di carriera o stipendio.
Spostandoci ai confini della vita, ritroviamo lo stesso contrappasso. Un trauma, una malattia, la stessa vecchiaia sono esperienze che possono accrescere l’attitudine alla felicità. Proprio perché ci spingono a riconsiderare il rapporto con il tempo, ci costringono alla consapevolezza. Spiega John Leland dopo aver studiato i super anziani (Scegliere di essere felici, Solferino Editore): la coscienza di non avere una prospettiva illimitata induce un’inattesa predisposizione alla leggerezza. E questo «spostamento» rivela un potere che interpella soprattutto chi è più giovane: quello di influenzare la qualità dell’esistenza e dunque il benessere soggettivo. Secondo gli antropologi, noi — followers dell’amare — dedichiamo all’avere il triplo del tempo dei nostri antenati cacciatori e raccoglitori.
I tre pilastri della felicità hanno dimensioni e colori diversi per ciascuno di noi, l’architrave della nostra casa avrà sempre un punto di equilibrio personale. Se il contesto in cui viviamo non ci piace possiamo sceglierne un altro, facendo le valigie, oppure possiamo sforzarci e migliorarlo. Ma quel contesto — paese, città, stanza tutta per noi — resta un confine. La «vita beata», diceva Seneca, si fonda sulla conoscenza e sull’accettazione dei limiti. È vero che lo stoicismo può trasformarsi in passività, noi siamo però dotati di quel potere giovane e anziano di lavorare sul limite. Su quello che siamo, abbiamo, amiamo. Vivere in «semplicità volontaria», riprendersi il tempo, è una risposta — non arrendevole, al contrario: impone un nuovo cominciamento — a quegli squilibri profondi che il «mondo della vita» neo-moderno porta con sé.