Corriere della Sera

Guerra ai briganti, non alle mafie Una politica scellerata e disastrosa

Enzo Ciconte ricostruis­ce le vicende della repression­e del banditismo in Italia (Laterza)

- di Gian Antonio Stella

«C’è un diffuso mercato delle teste. È abituale trovare in vari tribunali ambigui figuri che si aggirano con capienti ceste piene di teste tagliate e messe sotto sale perché si conservino meglio e più a lungo». Gela il sangue il racconto di Enzo Ciconte sui momenti più bui della guerra al brigantagg­io. Quando, appunto, era in vigore in vari Stati italiani «la regola che, ucciso un bandito e portata la sua testa al podestà, si aveva diritto a scegliere tra una taglia proporzion­ata alla nomea della vittima e la cancellazi­one del bando a carico di un parente, di un amico o di un servitore». La testa di un bandito per la libertà di un altro. Ammesso che il decapitato fosse sul serio un brigante e non un poveretto messo a morte perché spiantato, come un certo Antonio Benaglio che il Consiglio dei Dieci veneziano ordinò ai rettori di Bergamo di arrestare «trattandos­i di sogeto di conditione vile et consuetudi­nario nei delitti li soli inditii bastano per ordinarne la retentione».

Fu spietata e disumana, per secoli, soprattutt­o nel Mezzogiorn­o ma non solo, la repression­e dei «briganti», criminali o idealisti che fossero, di cui parlerà oggi lo storico calabrese presentand­o a Mantova il libro La grande mattanza. Storia della guerra al brigantagg­io (Laterza). Basti ricordare che quasi tre secoli prima dell’eccidio degli abitanti di Casalduni e Pontelando­lfo, il peggior crimine compiuto dalle truppe italiane dopo l’unità, Papa Sisto V era stato così duro nel «metter ordine» che, scrive la Treccani, «il noto avviso del 18 settembre 1585» ironizzava che «quell’anno erano state esposte più teste di banditi a ponte S. Angelo che meloni al mercato».

«Per distrugger­e il brigantagg­io abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi: ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato», ammonì Paquale Villari. Certo, non tutti furono ciechi. Il deputato milanese Giuseppe Ferrari, raggiunta faticosame­nte Pontelando­lfo, denunciò in Parlamento già nel 1861: «Io vi proposi di fare un’inchiesta affinché una metà della nazione conoscesse appieno l’altra metà, e le due parti della Penisola si unissero fratername­nte; mi rispondest­e essere l’inchiesta inutile, i mali passeggeri…». tutti sordi.

E così, spiega Ciconte, «esiste un numero sterminato di libri o articoli che hanno descritto le efferatezz­e, la crudeltà, gli eccidi, le stragi, gli episodi di gratuita e selvaggia violenza dei briganti» e insieme, per citare Giuseppe Galasso, «pagine e pagine di romanzieri o di storici» che al contrario li descrivono «come eroi, uomini senza paura in grado di tenere testa ai potenti del tempo, giovani affascinan­ti con un grande sprezzo del pericolo», al punto che «le figure dei briganti e le loro gesta sembrano essere entrate nell’albo d’oro delle memorie locali». Ma «come si conciliano o si spiegano due letture così opposte e divergenti?»

Risposta non facile. A volte i briganti furono davvero dei ribelli che via via combatteva­no le angherie spagnole, francesi, borboniche, savoiarde… Altre erano disperati oppressi dalla fame, altre ancora criminali calzati e vestiti o un impasto degli uni e degli altri. La grande mattanza si concentra però non sui vinti (torto o ragione che avessero), ma sulla belluina «ferocia di Stato» dei vari repressori. Che dichiarava­no d’aver tutti lo stesso obiettivo: «Il Terrore. Seminare il Terrore».

Ed ecco le teste mozzate riposte in piccole gabbie di cui scrive Édouard Gachot parlando di «cinquecent­o gabbie esposte lungo la strada per Napoli». E l’ordine di Gioacchino Murat: «È una guerra di sterminio che voglio contro questi miserabili!» E l’invettiva del generale Manhès con- tro gli abitanti di Serra San Bruno: «Vivrete come i lupi delle vostre foreste. Voi donne, genererete figli che vi saranno aspidi!» E la lettera del generale Morozzo Della Rocca a Cavour: «Un po’ di metodo soldatesco è medicina salutare a codesto popolo». E certi messaggi da brivido: «La testa di Palma mi giunse ieri verso le sei e mezzo. È una figura piuttosto distinta e somigliant­e ad un fabbricant­e di birra inglese. La testa l’ho fatta mettere in un vaso di cristallo ripieno di spirito…».

Solo le mafie, sostiene l‘autore de La grande mattanza, furono lasciate in pace: «Negli anni cruciali della costruzion­e dello Stato unitario c’è una guerra spietata ai briganti, ma la stessa durezza non è rivolta a fenomeni criminali e mafiosi noti e conosciuti in Campania, Sicilia e Calabria. Con i moderni agglomerat­i mafiosi lo Stato sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazio­ne…». Una scelta scellerata, «le cui conseguenz­e arrivano sino a noi».

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Uno scontro tra briganti e soldati in un dipinto realizzato dal francese Horace Vernet durante il suo soggiorno in Italia

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