I ritratti dei vecchi e quella rivincita sul grande Tiziano
La differenza con Vecellio è nei volti meno idealizzati
C inquanta dipinti e venti disegni sintetizzano a Palazzo Ducale la produzione della maturità che passa attraverso la ritrattistica, tappa fondamentale dell’attività di Tintoretto. Se infatti Tiziano immortalò l’establishment internazionale, il talentuoso figlio del tintore ritagliò per sé il ruolo di pittore ufficiale della gerontocrazia veneziana.
E c’è un motivo preciso: a partire dagli anni Cinquanta Tintoretto subentrò a Tiziano nell’incarico di ritrattista dei dogi, tutti uomini che conquistavano la carica nella maturità. Ma mentre il pittore di corte degli Asburgo si manteneva fedele alle convenzioni che imponevano di conferire al modello una dignità aulica, enfatizzata da abiti lussuosi, gioielli, tendaggi, Tintoretto lavorava invece per sottrazione, finendo per togliere anche la minima ombra retorica e ogni riempitivo dell’immagine. Concentrava la luce su viso e mani e da lì traeva tutti gli elementi realistici che gli servivano a svelare l’anima dei suoi modelli.
Non si limitava a guardarli con oggettività, ma li metteva in posa con lo sguardo direttamente rivolto al riguardante producendo così una scossa emotiva, un rapporto diretto e coinvolgente. Ma per conquistare il ruolo di pittore di Stato, Tintoretto non si era semplicemente affidato al talento.
Come suo costume, aveva studiato una strategia. Ambizioso, venuto dal nulla, senza maestri né appoggi, ma molto determinato a sfondare nell’iper competitivo ambiente artistico veneziano, si era fatto notare esponendo alla Merceria — vetrina per i giovani — due ritratti: il proprio e quello di suo fratello «finti di notte, con si terribile maniera, che fece stupire ognun’uno», racconta il biografo Claudio Ridolfi. Quel quadro non doveva essere dissimile dall’autoritratto che apre la mostra di Palazzo Ducale, arrivato dal Philadelphia Museum of Art: gli stessi occhi «di brace», arroganti e affamati di gloria e di soldi con cui si presenterà anche il giovane Caravaggio. La tattica di conquista del mercato resterà identica per tutta la vita: attuare una spietata «concorrenza cinese» consistente nell’abbassare i prezzi e «tirar via di pratica», come disse Vasari che disapprovava la sua velocità. Tintoretto si mise a offrire ritratti di piccole dimensioni, limitati alla testa e alle spalle, eseguiti rapidamente e a costo ridotto e il successo fu facile. Approfittando delle assenze di Tiziano, nel 1551 il figlio del tintore risultava già pittore di Stato e tutta l’élite politica e intellettuale sedeva davanti al suo cavalletto.
Tranne le donne. Tintoretto ne dipingerà poche e non riuscirà mai a rubare al rivale La vecchiaia Jacopo Tintoretto, Autoritratto, 1588 ca, Parigi, Musée du Louvre, in mostra a Palazzo Ducale l’impareggiabile dono di restituirne la sensualità. I vecchi, al contrario, furono il suo cavallo di battaglia. Negli anni ‘70 e ‘80 i ritratti dei venerandi che conquistavano le più alte cariche della Serenissima costituirono la parte preponderante della sua produzione: una parata di dogi, magistrati, vecchi combattenti, restituiti senza alcun intento idealizzante, ma anzi con il volto affaticato dall’esperienza e dal peso delle responsabilità.
Non eroi; non potenti ambiziosi; ma uomini provati, intenti a contemplare, con gli occhi cerchiati di nero, le palpebre gonfie e le guance scavate, la melanconia della vicenda umana. Una carrellata di anziani in cui Tintoretto infilò
I soggetti
Una parata di dogi o magistrati restituiti con il volto affaticato dalla lunga esperienza
Non faceva le vedute ma colse il carattere della sua città nei volti dei suoi abitanti
anche se stesso, nel magnifico autoritratto che chiude la mostra, arrivato dal Louvre. A fine percorso ci troviamo così di nuovo faccia a faccia con le sembianze dell’artista, ma il giovanile sguardo di sfida è diventato di un’intensità emotiva così intima che ora sembra cercare la confessione. A settant’anni, ricco di gloria, Tintoretto è triste. Nessun dettaglio allude alla sua attività di pittore. Quell’estremo autoritratto appare come un legato tragico della propria esperienza di vita e arte: sic transit gloria mundi.
d
Il racconto Tintoretto dipinge Venezia perché prende il contenuto, non il contenitore. La città viva, non la città vuota, da cartolina. Tintoretto, più di tutto, dipinge i veneziani, l’energia e l’astuzia di quella potenza. Fa ritratti, più di un centinaio con la sua bottega; passano da lui i dogi e i patrizi di secondo piano, i membri delle Scuole e i mercanti. Ma poi ruba i loro piedi, le loro barbe, i loro seni, anche per fare i santi, i personaggi della mitologia antica, le figure di contorno. Prende i volti, la furbizia e la gloria. Prende i vecchi e i giovani. I vestiti, la ricchezza, i tappeti e gli specchi, i pizzi e le gorgiere. Non è sua, la rivoluzione del Rinascimento, della verità dei tratti, ma lui la amplifica. La porta verso il destino, attraverso la luce. Per questo, Venezia non è solo negli uomini, negli interni. Venezia c’è nelle grandi scene, perché c’è il suo cielo, ci sono le nubi scure come coperchi di rame, i colori, e l’impeto con cui cambiano.