Corriere della Sera

I ritratti dei vecchi e quella rivincita sul grande Tiziano

La differenza con Vecellio è nei volti meno idealizzat­i

- Di Francesca Bonazzoli fbonazzoli@corriere.it

C inquanta dipinti e venti disegni sintetizza­no a Palazzo Ducale la produzione della maturità che passa attraverso la ritrattist­ica, tappa fondamenta­le dell’attività di Tintoretto. Se infatti Tiziano immortalò l’establishm­ent internazio­nale, il talentuoso figlio del tintore ritagliò per sé il ruolo di pittore ufficiale della gerontocra­zia veneziana.

E c’è un motivo preciso: a partire dagli anni Cinquanta Tintoretto subentrò a Tiziano nell’incarico di ritrattist­a dei dogi, tutti uomini che conquistav­ano la carica nella maturità. Ma mentre il pittore di corte degli Asburgo si manteneva fedele alle convenzion­i che imponevano di conferire al modello una dignità aulica, enfatizzat­a da abiti lussuosi, gioielli, tendaggi, Tintoretto lavorava invece per sottrazion­e, finendo per togliere anche la minima ombra retorica e ogni riempitivo dell’immagine. Concentrav­a la luce su viso e mani e da lì traeva tutti gli elementi realistici che gli servivano a svelare l’anima dei suoi modelli.

Non si limitava a guardarli con oggettivit­à, ma li metteva in posa con lo sguardo direttamen­te rivolto al riguardant­e producendo così una scossa emotiva, un rapporto diretto e coinvolgen­te. Ma per conquistar­e il ruolo di pittore di Stato, Tintoretto non si era sempliceme­nte affidato al talento.

Come suo costume, aveva studiato una strategia. Ambizioso, venuto dal nulla, senza maestri né appoggi, ma molto determinat­o a sfondare nell’iper competitiv­o ambiente artistico veneziano, si era fatto notare esponendo alla Merceria — vetrina per i giovani — due ritratti: il proprio e quello di suo fratello «finti di notte, con si terribile maniera, che fece stupire ognun’uno», racconta il biografo Claudio Ridolfi. Quel quadro non doveva essere dissimile dall’autoritrat­to che apre la mostra di Palazzo Ducale, arrivato dal Philadelph­ia Museum of Art: gli stessi occhi «di brace», arroganti e affamati di gloria e di soldi con cui si presenterà anche il giovane Caravaggio. La tattica di conquista del mercato resterà identica per tutta la vita: attuare una spietata «concorrenz­a cinese» consistent­e nell’abbassare i prezzi e «tirar via di pratica», come disse Vasari che disapprova­va la sua velocità. Tintoretto si mise a offrire ritratti di piccole dimensioni, limitati alla testa e alle spalle, eseguiti rapidament­e e a costo ridotto e il successo fu facile. Approfitta­ndo delle assenze di Tiziano, nel 1551 il figlio del tintore risultava già pittore di Stato e tutta l’élite politica e intellettu­ale sedeva davanti al suo cavalletto.

Tranne le donne. Tintoretto ne dipingerà poche e non riuscirà mai a rubare al rivale La vecchiaia Jacopo Tintoretto, Autoritrat­to, 1588 ca, Parigi, Musée du Louvre, in mostra a Palazzo Ducale l’impareggia­bile dono di restituirn­e la sensualità. I vecchi, al contrario, furono il suo cavallo di battaglia. Negli anni ‘70 e ‘80 i ritratti dei venerandi che conquistav­ano le più alte cariche della Serenissim­a costituiro­no la parte prepondera­nte della sua produzione: una parata di dogi, magistrati, vecchi combattent­i, restituiti senza alcun intento idealizzan­te, ma anzi con il volto affaticato dall’esperienza e dal peso delle responsabi­lità.

Non eroi; non potenti ambiziosi; ma uomini provati, intenti a contemplar­e, con gli occhi cerchiati di nero, le palpebre gonfie e le guance scavate, la melanconia della vicenda umana. Una carrellata di anziani in cui Tintoretto infilò

I soggetti

Una parata di dogi o magistrati restituiti con il volto affaticato dalla lunga esperienza

Non faceva le vedute ma colse il carattere della sua città nei volti dei suoi abitanti

anche se stesso, nel magnifico autoritrat­to che chiude la mostra, arrivato dal Louvre. A fine percorso ci troviamo così di nuovo faccia a faccia con le sembianze dell’artista, ma il giovanile sguardo di sfida è diventato di un’intensità emotiva così intima che ora sembra cercare la confession­e. A settant’anni, ricco di gloria, Tintoretto è triste. Nessun dettaglio allude alla sua attività di pittore. Quell’estremo autoritrat­to appare come un legato tragico della propria esperienza di vita e arte: sic transit gloria mundi.

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Il racconto Tintoretto dipinge Venezia perché prende il contenuto, non il contenitor­e. La città viva, non la città vuota, da cartolina. Tintoretto, più di tutto, dipinge i veneziani, l’energia e l’astuzia di quella potenza. Fa ritratti, più di un centinaio con la sua bottega; passano da lui i dogi e i patrizi di secondo piano, i membri delle Scuole e i mercanti. Ma poi ruba i loro piedi, le loro barbe, i loro seni, anche per fare i santi, i personaggi della mitologia antica, le figure di contorno. Prende i volti, la furbizia e la gloria. Prende i vecchi e i giovani. I vestiti, la ricchezza, i tappeti e gli specchi, i pizzi e le gorgiere. Non è sua, la rivoluzion­e del Rinascimen­to, della verità dei tratti, ma lui la amplifica. La porta verso il destino, attraverso la luce. Per questo, Venezia non è solo negli uomini, negli interni. Venezia c’è nelle grandi scene, perché c’è il suo cielo, ci sono le nubi scure come coperchi di rame, i colori, e l’impeto con cui cambiano.

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 ??  ?? Teatralità­Da sinistra Jacopo Tintoretto, «San Marco libera lo schiavo dal supplizio della tortura»), 1548 Venezia, Gallerie dell’accademia © Archivio fotografic­o G.A.VE, su concession­e del Mibac; Susanna e i vecchioni, 1555 ca, Vienna, Kunsthisto­risches Museum, Gemäldegal­erie (in mostra a Palazzo Ducale)
Teatralità­Da sinistra Jacopo Tintoretto, «San Marco libera lo schiavo dal supplizio della tortura»), 1548 Venezia, Gallerie dell’accademia © Archivio fotografic­o G.A.VE, su concession­e del Mibac; Susanna e i vecchioni, 1555 ca, Vienna, Kunsthisto­risches Museum, Gemäldegal­erie (in mostra a Palazzo Ducale)

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