Corriere della Sera

Così soffoca il governo Sarraj

Dopo Gheddafi, l’intervento Nato non ha creato nessuna vera selezione della leadership: ora trionfa il caos Ieri l’attacco alla società petrolifer­a

- di Lorenzo Cremonesi

Vittorie truccate e guerre fra tribù, così soffoca il governo Sarraj. Ieri, a Tripoli, un attacco alla compagnia petrolifer­a con morti e feriti. Moavero da Haftar.

due fazioni non hanno mancato di lanciarsi accuse sulle responsabi­lità dell’attentato. Ma l’elemento evidente è che Sarraj non regge. Ha fallito, le milizie che lo sostengono sono troppo divise. E l’appoggio dell’onu e di parte della comunità internazio­nale (tra cui l’italia) non basta più.

Tutto ciò in continuità con la storia della rivolta libica, sin dalle prime battute. Da soli infatti i ribelli non sarebbero mai andati da nessuna parte e, se non ci fosse stato l’intervento Nato, l’ex regime sarebbe ancora in piedi. E’ vero che il governo francese fu tra i maggiori fautori dell’attacco militare. Furono tra l’altro i missili tirati dai Mirage di Parigi quella mattina del 20 ottobre 2011 alla periferia di Sirte a fermare il convoglio di Gheddafi, poi linciato a morte, con un centinaio di fedelissim­i. Ma allora la maggioranz­a dei politici e del pubblico nei Paesi Nato simpatizza­va per la rivoluzion­e. Uno dei pochi contrari fu Silvio Berlusconi. Ricapacità mase inascoltat­o.

L’intervento Nato, approvato dalle Nazioni Unite, mutò la situazione sul campo. Il primo attacco del 20 marzo fu lanciato con missili e jet americani, francesi e inglesi contro il lungo convoglio di gheddafian­i che da Sirte si dirigeva su Bengasi. Fu un massacro. Centinaia di morti in decine di carri armati, camion, cingolati carbonizza­ti dalle bombe. Ma per noi giornalist­i fu sorprenden­te osservare quanto marzialmen­te i soldati reclutati dalle tribù che sostenevan­o Gheddafi erano in grado di reagire. Pur battuti, privi del controllo dell’aria, dimostrava­no una di combattime­nto ammirevole. I resti della colonna devastata si ritirarono per trincerars­i ad Ajdabia, 160 chilometri a ovest di Bengasi. Le milizie ribelli non riuscirono a scacciarli. Fu necessario ancora l’intervento aereo Alleato per snidarli.

La dinamica di quelle prime battaglie rimase invariata. Avvenne ovunque: durante i combattime­nti lungo i terminali petrolifer­i nel deserto, a Sirte, per porre fine all’assedio di Misurata, nella sfida per Khmos e le altre città costiere, sino a Tripoli a metà agosto. Quasi subito fu evidente che, nonostante la propaganda della rivoluzion­e, non era affatto vero che le truppe del Colonnello fossero «tutti stranieri mercenari neri africani». In effetti, venivano in maggioranz­a dalle tribù libiche a lui tradiziona­lmente alleate. La rivoluzion­e appariva sempre meno guerra di liberazion­e e vieppiù sanguinosa guerra civile. Il fatto che però fosse tanto fortemente assistita dagli Alleati occidental­i ne stravolse le dinamiche per la scelta della leadership. Mancò infatti quel processo di selezione interna del più forte che in genere caratteriz­za le rivolte sociali violente. Tutte le milizie vincevano perché in realtà non erano loro a combattere e rischiare sino in fondo, bensì i loro potenti mentori. Così, alla morte del «rais» i vincitori si posero tutti più o meno sullo stesso piano. Nessuno era stato battuto: tutti potevano comandare. La democrazia fu confusa con il governo di tutti. Ognuno era un eroe. Nessuno voleva obbedire. Venne rapidament­e e furbescame­nte dimenticat­o il ruolo vitale dei militari Alleati. I jihadisti e i gruppi legati ai Fratelli Musulmani, che in genere hanno una solida struttura gerarchica interna, divennero un polo importante. Le prime elezioni del 2012 e poi quelle del 2014 videro il trionfo della frammentaz­ione, con centinaia di mini-partiti che rifletteva­no campanilis­mi tribali, interessi municipali. Era anche il frutto di 42 anni di dittatura fondata sul carisma di un uomo solo, che aveva sempre contrastat­o qualsiasi istituzion­e potesse fargli concorrenz­a.

Oggi la Libia paga il conto di quella vittoria truccata. Sarraj ne fa le spese ogni giorno. Non avendo una propria forza militare, è costretto a mediare con le milizie locali, a capitolare di fronte alla corruzione imperante. Haftar per contro aspira al ruolo di nuovo Gheddafi e guida una parte del vecchio esercito. Con lui oggi stanno Francia, Emirati Arabi Uniti, Russia. Ma anche questo vecchio ufficiale cresciuto nel mito nasseriano della post-colonizzaz­ione deve trattare con le milizie e le tribù, come faceva Gheddafi. A Tarhuna i fratelli Khani della Settima Brigata simpatizza­no con i Fratelli Musulmani. E il suo rapporto con gli eredi di Gheddafi deve ancora essere messo alla prova.

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