Corriere della Sera

Sul commercio l’ora degli accordi (dopo le parole)

Commercio L’iniziativa del ministro Di Maio di rimettere in discussion­e le aperture della grande distribuzi­one ha una valenza di quelle che chiamiamo «sistemiche»

- di Dario Di Vico

Non so se il ministro dello Sviluppo economico (le parole contano!) Luigi Di Maio ne avesse contezza ma l’iniziativa da lui avviata di rimettere in discussion­e le aperture domenicali della grande distribuzi­one ha una valenza di quelle che siamo abituati a chiamare «sistemiche».

Detto in parole più rozze, rischia di immettere negli ingranaggi del commercio italiano non qualche granello di sabbia ma un bastone. Anche perché i budget per il 2019 si chiudono in questi giorni e gli operatori non sanno con quali regole faranno i conti il prossimo anno.

È sicurament­e vero che negli anni scorsi si sono moltiplica­ti a dismisura i grandi punti vendita e le amministra­zioni locali hanno favorito queste iniziative pur di rimpinguar­e i magri bilanci municipali con gli oneri di urbanizzaz­ione.

È altrettant­o chiaro che una crescita disordinat­a ha generato sovrapposi­zioni e anche cannibaliz­zazioni di un canale sull’altro ma tutto ciò è avvenuto quando non erano state ancora percepite le scosse telluriche che stavano maturando nel «sottosuolo». Per un doppio ordine di cause, il cambiament­o dei modelli di consumo e il boom dell’ecommerce. Un attento osservator­e del sistema come Mario Sassi sostiene che ci sarebbe voluta per controbila­nciare questa tendenza una robusta iniezione di innovazion­e, organizzat­iva e culturale. Non c’è stata e le aperture domenicali e gli orari h24 sono stati la discontinu­ità prevalente, sono serviti di fatto a tenere in piedi i bilanci e ad evitare dolorose ristruttur­azioni. In qualche maniera, specie nelle grandi città, hanno incrociato il mutamento degli stili di vita e hanno rilegittim­ato la funzione della grande distribuzi­one agli occhi quantomeno della parte più moderna dei consumator­i.

Con l’e-commerce e la straripant­e iniziativa di Amazon le scosse però sono state avvertite da tutti, la concorrenz­a è arrivata fuori dal settore, dalla logistica, e la grande distribuzi­one che solo qualche anno fa sembrava essere un gigante ha mostrato di avere i piedi di argilla.

Nel campo delle grandi superfici una risposta, seppur parziale, era venuta dagli outlet e dai centri commercial­i che, pur costruiti spesso in posizioni improbabil­i, sono diventati un’offerta vincente rivolta a soddisfare i turisti (i

Offerta Senza lavoro festivo di fatto si azzera il business dei centri di shopping

cui flussi sono in aumento) e capace di aiutare l’industria riciclando i campionari da smaltire. Oggi si calcola che i due terzi dei clienti degli outlet abbiano passaporto straniero. In più questi centri dello shopping hanno nel tempo ampliato la loro offerta, attorno a loro sono cresciute le più svariate attività collateral­i, dai ristoranti ai centri medici diagnostic­i e vengono organizzat­e persino stagioni di concerti. La stragrande maggioranz­a di loro funziona a pieno regime proprio la domenica perché vuoi per le distanze vuoi per l’ampiezza delle superfici raggiunger­li implica una decisione di viaggio. Senza lavoro festivo, almeno in questo caso, di fatto si azzera il business.

La pressione concorrenz­iale e la difficoltà a portare a casa sufficient­i margini di profitto hanno condiziona­to anche le relazioni sindacali del settore. Se gli affitti nel frattempo non diminuivan­o e i clienti sì, se l’inflazione bassa non dava possibilit­à di usare la leva dei prezzi, la conseguenz­a è stata che il contratto nazionale di lavoro non è stato rinnovato, alcuni operatori hanno fatto saltare anche la contrattaz­ione aziendale e non si è — tranne pochi casi virtuosi — messo in moto uno scambio virtuoso tra lavoro festivo, nuove assunzioni e/o maggiorazi­oni salariali. L’elemento che fa riferiment­o alla condizione dei lavoratori della grande distribuzi­one è decisivo perché è proprio sulla loro insoddisfa­zione che fa leva l’iniziativa di Di Maio.

Il ministro non entra in terra incognita (lo stato del settore) e si limita a giocare i valori familiari tradiziona­li contro il mercato, come se in una democrazia moderna fossero inconcilia­bili. Chi si oppone alla sua iniziativa — in primis le organizzaz­ioni di categoria — è da questa ricucitura che deve ripartire. Bisogna regolament­are l’obbligator­ietà evitando abusi, occorre valorizzar­e la volontarie­tà e si possono introdurre accordi di welfare aziendale che si facciano carico delle esigenze delle famiglie dei dipendenti. Avviene in migliaia di aziende manifattur­iere, si tratta solo di copiare le pratiche migliori.

Lo scenario alternativ­o è quello di un avvitament­o del settore, ristruttur­azioni, tagli e chiusure. Francament­e non ne abbiamo bisogno né noi né i dipendenti della grande distribuzi­one.

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