(Nuovo) ritratto di signora
John Banville fa rivivere l’eroina di Henry James. Senza imitare il maestro
Èl’architetto ideale, John Banville, per lavorare ancora in quella «house of fiction», la casa dove si aprono «un milione di finestre», di cui Henry James parlava nella prefazione a Ritratto di signora: un breve saggio di teoria del racconto, pubblicato all’inizio del secolo scorso (circa venti anni dopo il libro che avrebbe introdotto e spiegato) nel quale uno dei maggiori creatori dell’intera storia letteraria ci annuncia che ogni personaggio deve avere «un’impressione diversa» della scena in cui appare.
Se le cose stanno così, nessuno meglio di Banville, questo illusionista geniale e beffardo capace sempre di diventare qualcun altro (come ha dimostrato in una carriera dominata dalla lucentezza dei neri e dei grigi), maestro del «tono» delle parole, esploratore instancabile degli angoli oscuri nascosti di tutte le case della finzione, poteva impossessarsi di un simbolo dell’arte del narrare come la protagonista di quel romanzo giustamente famoso. Nessuno meglio di lui, con Isabel (Guanda), poteva indagare il passato di una giovane donna che arriva in Europa decisa ad affermare la sua personalità indipendente (diventando invece Mrs Osmond) oppure poteva scoprire il futuro di un matrimonio sospeso nella linea d’ombra tra l’appello dell’orgoglio e la coscienza del tradimento. «Gli scrittori — sostiene l’autore di La spiegazione dei fatti — sono cannibali».
Che fosse la persona giusta, Banville è forse il primo a saperlo. Proprio per questo ha scelto se stesso e ha voluto anche interpellare nel regno degli spiriti l’enigmatico gentiluomo nato a New York in un giorno di aprile del 1843 da una danarosa famiglia di intellettuali. «Quando gli dissi che cosa volevo fare, scomparve senza dire niente: lo presi come un’approvazione». Il consenso (almeno apparente) del Maestro e la fedeltà alla sua lezione, indicano che non si è trattato di un atto presuntuoso, come qualcuno potrebbe credere. E i risultati lo confermano. Isabel va ben al di là del valore delle sue motivazioni.
Vediamole queste motivazioni, lasciando perdere il cannibalismo. Cerchiamo di indovinarle, sfogliando magari La chitarra blu, uno degli ultimi libri di questo formidabile incantatore. «Ho sempre avuto l’impressione — dice una delle sue “voci”, il pittore Oliver Otway Orme, ladro di oggetti, quasi mai innamorato delle donne amate — che uno degli aspetti più deprecabili della morte, a parte il terrore, il dolore e la sporcizia, sia che quando me ne sarò andato non ci sarà più nessuno qui a cogliere il mondo esattamente come lo colgo io». Ecco il nocciolo della questione. Cogliere il mondo come lo avrebbe colto Henry James, con occhi ancora più coraggiosi di quelli della sua già eccezionale modernità, serve a riportare alla vita chi non c’è più, chi si è alzato dalla panchina della desolazione. Un gesto ammirevole, perché nemmeno i più grandi sono immortali. Quando lo incontrai per la prima volta, a Dublino nel 2006, disse di «non credere nell’anima». La scomparsa tra le onde dei gemelli Chloe e Myles nel suo libro più bello, Il mare, non è «nient’altro che una delle tante, indifferenti scrollate di spalle del vasto mondo».
L’immenso sforzo compiuto da James sul «punto di vista» ha sempre aperto la strada al gusto della rilettura. Non è un caso che Claire Messud abbia parlato, in un articolo apparso nel 2004 sul «Guardian», della «gioia» di riprendere in mano Ritratto di signora cambiando anche giudizio sul carattere dei personaggi. Più recentemente Charles Finch, sul «New Yorker», ha riferito degli slittamenti di percezione, «dal realismo al melodramma», che provoca rivisitare un autore tanto centrale nella letteratura moderna: la sua conclusione è che imitare i mostri sacri è impossibile.
Il punto però non è questo. Rileggere, nel caso di Banville, è il momento decisivo per cercare di entrare non solo nella casa della finzione ma anche nella testa di colui che la ha costruita. Il passo successivo è scrivere, senza «imitare», piegando lo stile a questo obiettivo. Solo così si può raccontare il non detto. Isabel pensa quello che la Isabel di prima non aveva voluto pensare. Suo marito Gilbert Osmond, l’arido e intrigante uomo del quale aveva subito inizialmente il fascino opaco, «con tutte le sue genuflessioni davanti all’irreprensibile altare dell’arte, aveva un filo di rozzezza nel carattere a cui, come tardivamente riconosceva, avrebbe dovuto prestare più attenzione». Quando era giovane non si era innamorata di lui, ma di se stessa.
Non bisogna credere, comunque, che questo sia un romanzo giocato interamente sul confronto con un modello. Tutt’altro. È un libro felice, in cui Banville si sente libero di inventare all’interno di un sistema perfetto. Fanno la loro apparizione nuovi personaggi, come la suffragetta Florence Janeway, e seguiamo con apprensione il destino di una borsa contenente un’enorme somma di denaro. Intanto ritroviamo volti conosciuti: uno dei corteggiatori respinti, Caspar Goodwood, l’ amica Henrietta Stackpole, la contessa Gemini, sorella di Osmond, Pansy, la figlia di lui, e, naturalmente, l’avido artista dilettante con l’infida Madame Merle, sua amante, complice, vittima.
«Era quello che non facevano, le parole che non pronunciavano, gli sguardi che non si scambiavano, i contatti fortuiti che evitavano con tanto scrupolo che avrebbero dovuto pungolare i suoi sospetti e risvegliarli» si legge quando Isabel ripensa agli inganni della diabolica coppia. Sono i segnali di una presa di coscienza che porterà a strappi imprevedibili e forse a un impegno che James aveva solo lontanamente sfiorato. Ma è meglio fermarsi. Anche qui, infatti, il finale è aperto. All’inizio, invece, fa la sua comparsa nella sala da pranzo di un hotel londinese un gentiluomo vicino alla mezza età che dal suo tavolo guarda Isabel «fermissimo e calmo» e poi si allontana senza che lei se ne accorga. Chi era? Forse Henry James? Preferiamo credere che sia lo stesso Banville, con un acrobatico salto indietro nel tempo e nella fantasia. Conviene seguirlo in strada per chiedergli — come ha già auspicato Jeffrey Eugenides in un articolo sul «New York Times» — di scrivere il seguito di questo libro.
Libertà di movimento
Banville inventa restando all’interno di un sistema perfetto. Il suo non è un romanzo tutto giocato sul confronto con un modello