LA VERITÀ E LE OMBRE
VIVIAMO SU UN DUPLICE PIANO TUTTO DEV’ESSERE TRASPARENTE MA SOSPETTIAMO DI OGNI COSA
L’appuntamento Torna il Festival Filosofia e indaga sui volti dell’autenticità. Un grande filosofo teorizza la contraddizione su cui poggia il nostro mondo: niente è immune da opacità e così l’ossessione per la veridicità non trova mai un approdo
L’uso della menzogna è antico quanto l’esercizio delle diverse forme di rivalità, concorrenza, competizione per il potere, il dominio e l’appropriazione di ogni tipo di beni materiali e simbolici — in breve, di ogni specie di strategia. Quando Bruto accanto a Crasso e Casca saluta Cesare al Senato, non sta forse nascondendo il suo piano assieme al suo pugnale? Quando De Gaulle, il 4 giugno 1958, dichiara agli Algerini, «Io vi ho compreso», non sta forse giocando abilmente con le parole e con un pubblico che sta raggirando? Quando il governo americano annuncia nel 2003 che l’iraq detiene armi di distruzione di massa, come mai dieci anni dopo lo stesso Segretario di Stato (Colin Powell) smentirà questo annuncio?
Smentita è un termine usato molto spesso nel lessico diplomatico e dell’informazione, in ambito politico, militare, economico, tecnico e ideologico: la sua frequenza attesta, se non la realtà, almeno la possibilità di sospettare sempre di ciò che si deve smentire, dunque di una menzogna. A Talleyrand, il famoso diplomatico e ministro francese di Napoleone e dei seguenti governi, viene attribuita questa massima: «Mentite, mentite, qualcosa resterà!» È inutile gridare al cinismo: cinica di per sé è la semplice realtà, è l’ordinaria credulità. Quando un’affermazione lusinga in noi un’aspettativa più o meno oscura, una preferenza istintiva, siamo pronti a credervi. Nelle elezioni, ogni candidato va incontro alle speranze della sua clientela elettorale. Si tocca qui uno dei punti più delicati delle stesse possibilità della democrazia: il punto dell’informazione, della riflessione e del giudizio dei cittadini.
I segreti e le menzogne degli Stati, così come quelli di tutti i poteri (tecnici, economici, culturali) sono sempre stati noti. Questa evidenza apparteneva alla tradizione e, di fatto, è stata accettata finché i poteri di ogni tipo hanno goduto di una certa reverenza o almeno sono stati ammessi come un ordine più o meno naturale. In che modo questo carattere naturale del potere sia stato sostituito da un sospetto generalizzato è quanto resta ora da esaminare.
Una parola offre un primo accesso a questo esame. È la parola russa glasnost usata dal 1986 e dopo l’incidente nucleare di Chernobyl da parte di Mikhail Gorbachev. Tradotta di solito con «trasparenza», questa parola (che in russo evoca la voce) intendeva significare la necessità di un’informazione libera e accessibile a tutti — non solo sull’episodio di Chernobyl, ma sull’insieme dei dati e delle azioni dell’intero apparato di gestione di un grande Stato. A questa parola si può associare il titolo di un articolo, firmato Schikman, pubblicato a Mosca nel 1988: «Soveršenno nesekretno» (Nessunissimo segreto).
La scomparsa del segreto e la pratica della trasparenza divennero allora un’esigenza generale dello spirito democratico. Poiché gli Stati totalitari avevano circondato i loro atti e i loro calcoli con formidabili spessori di silenzio e di sorveglianza, era l’idea stessa di segreto di Stato a essere respinta. Non è irrilevante che ciò sia avvenuto contemporaneamente a un grave incidente industriale: un certo grado di esposizione delle conseguenze tecniche equivale a un’esposizione pubblica. A questo proposito, dopo i campi di sterminio e la bomba atomica, passando per le manifestazioni gravide di conseguenze di tante tecniche militari, industriali, agrarie, economiche, finanziarie e persino ideologiche (perché anch’esse sono tecniche) la storia non ha cessato da quasi un secolo di seguire un doppio movimento: tutto appare sempre più esposto alla luce del sole e, simultaneamente, tutto ciò che viene esposto sembra provenire da macchinazioni che restano nascoste.
L’impossibilità di penetrare gli arcani della tecnica va di pari passo con l’apparente aumento di rivelazioni di segreti diplomatici, politici e finanziari. Donde, da un lato, l’ingegnosità tecnica che rende possibile frugare nei dossier segreti (Wikileaks) e, dall’altro, le contorsioni immaginative che in continuazione secernono nuove «teorie del complotto». Da un lato sempre più trasparenza, dall’altro sempre più oscurità. Ma le trasparenze rivelano sempre dietro di sé oscurità più profonde (cercate per esempio di districare le manovre che, dall’interno e dall’esterno dell’urss, hanno portato Eltsin a soppiantare Gorbachev anche se il secondo aveva dapprima cancellato il primo…) — e, simmetricamente, le oscurità si mostrano più traslucide.
È così che si dà una verità della menzogna: ciò che viene nascosto o deformato non può non esercitare un’azione o una tensione nascosta. Quanto accade nel fondo marino, nella foresta amazzonica, nell’ambiente subsahariano o nel permafrost siberiano non può non attraversare lentamente le facciate delle grandi aziende, delle dichiarazioni internazionali e delle macchine iperpotenti che attivano, proteggono e dissimulano le operazioni in gioco. Parimenti, ciò che accade quando gli Stati con le loro istituzioni, le assemblee e i cittadini trasferiscono poteri a dei combinati (riprendo questo termine antico che mi sembra indicativo) di potenze sempre più tecnico-economiche che politicosociali, questo non cessa di mostrarsi nello stesso momento in cui si cela.
L’europa è un caso esemplare di questo duplice processo: essa appare sempre più come una macchina tecnoeconomico collegata a sua volta ad altre macchine mondiali e rivela sempre più di non aver nulla a che fare con tutte le idee e le immagini che sono state proiettate sul nome «Europa». In un certo senso, l’europa è la verità della menzogna che essa è — indipendentemente dall’incontestabile sincerità di quanti cercano di farla esistere.
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È così che si dà una verità della menzogna: ciò che viene nascosto o deformato non può non esercitare un’azione o una tensione nascosta