La parabola del Cinghialotto tra volontariato e tanti litigi
Nel deserto del Qatar sei anni fa Romano Fenati si presentava al mondo con un sorprendente podio alle spalle di Maverick Viñales. Ma il bello doveva ancora arrivare. Alla sua seconda gara nel Motomondiale, a Jerez, il ragazzino con la tuta bianca e una moto non competitiva si prendeva la vittoria e incassava i complimenti dell’allora pilota di F1 Mark Webber: «What a talent!». Aveva 16 anni il ragazzino di Ascoli, non era ancora il «Cinghialotto» né il bullo delle due ruote. Aveva un futuro assicurato con quella partenza a razzo nella categoria iniziatica, la Moto3: per lui parlavano risultati e telemetrie. Andava forte, guidava spavaldo contro avversari più grandi di lui, come quando a 7 anni aveva iniziato sulle minimoto.
Chi lo ha seguito dagli inizi lo descrive come un talento vero, un rider «aggressivo» nel senso buono del termine: «Era tra i migliori» spiega Carlo Pernat, ma il talent scout di Valentino Rossi inorridisce ripensando alla «pinzata» sul freno di Stefano Manzi a 217 all’ora, domenica a Misano: «Mai visto nulla del genere in 40 anni di carriera».
Accelerate e cadute rovinose, la parabola dell’ex golden boy dell’italmoto è la storia di un ventiduenne che lotta contro i suoi demoni. Botte di testa, sfuriate, liti nel retro dei box, un temperamento senza freni. Si dice che la squadra con cui correva fino a ieri, il team Snipers, gli avesse messo a disposizione uno psicologo, qualcuno dice imposto. E di «problemi psicologici» parla anche Lucio Cecchinello, uno che di piloti se ne intende da patron della Honda Lcr: «Perché arrivare a fare