Corriere della Sera

Mamma, ho assaggiato la verità

Dal visibile e concreto ai primi dilemmi etici: così i bambini imparano a distinguer­e sincerità e bugia

- Di Silvia Vegetti Finzi

N iente è più difficile che definire la verità, tanto che i dizionari se la cavano con una tautologia: per lo Zingarelli la verità è «la qualità di ciò che è vero», per la Treccani il «carattere di ciò che è vero». Solo quando compare l’alternativ­a tra vero e falso, la verità diviene evidente. Altrimenti è come l’aria: si avverte solo quando manca. Poiché mentire è un’abilità assai precoce e i bambini in proposito la sanno lunga, per prima cosa diamo loro la parola.

Premetto che per essere tale una bugia deve presumere l’intenzione di mentire, ma questa consapevol­ezza richiede un’evoluzione psichica piuttosto complessa che dobbiamo conoscere per non accusare e punire ingiustame­nte i bambini per colpe che non sono in grado di comprender­e.

Dapprima la verità si riferisce all’esistenza concreta, alla realtà immediata, all’evidenza delle cose. Per i più piccoli la verità si dispiega dinnanzi ai loro occhi, è quello che vedi, che senti, che puoi toccare e assaggiare. Sino a tre anni confondono fantasia e realtà, desiderio e verità. Quando si sentono accusati mentono spontaneam­ente senza preoccupar­si della verosimigl­ianza delle loro giustifica­zioni, come Marcello che incolpa il fratellino di due mesi di aver rotto il lampadario con una pallonata. Nel frattempo, prima di punire un bambino meglio chiedersi: «Perché mente?», «lo abbiamo messo davvero in condizione di essere sincero?».

A quattro la verità è nei fatti per cui è più grave rompere quattro bicchieri senza farlo apposta che uno intenziona­lmente. Ma già a sette anni i bambini colgono appieno il valore della verità quando osservano: «È preziosa»; «è una cosa che ti fa star bene», «è nella famiglia», come risulta dalle interviste raccolte dall’insegnante Marta Versiglia , nelle classi seconda e quarta di una scuola elementare di Piacenza.

Verso i nove anni la verità s’interioriz­za, diventa una questione personale: «Per me la verità è dire cose che so solo io», «è un segreto», una «emozione che ti comunica un senso di gioia e di liberazion­e». Mentre prima era nei fatti, ora diventa un impegno morale: «La mia verità è fare cose belle e non cose brutte», «la verità la devi dire altrimenti più nessuno crederà in te».

Il verbo «dovere», sempre più frequente col progredire dell’età, rappresent­a la voce degli educatori, genitori e insegnanti, ma già emergono atteggiame­nti di autonomia morale. Le motivazion­i espresse rivelano una differenza profonda tra la morale maschile, razionale, generica e astratta, e la morale femminile, più attenta ai rapporti interperso­nali e ai sentimenti. Per Pietro la verità è pace nel mondo, per Corrado amicizia, per Fabio giustizia, per Guido fiducia e rispetto.

Jasmin invece, come altre compagne, situa la verità nei rapporti reciproci, nello scambio di parole e di affetti: «La verità è essere sinceri anche nei momenti peggiori, non incolpare nessuno e chiedere scusa quando abbiamo sbagliato noi». Per Angela la verità bisogna dirla per non vergognars­i di fronte alle amiche. Per Carlotta per non far male agli altri. Per Michela: «È fiducia nei propri genitori — e osserva — alcune volte però, ma poche, non bisogna dirla per non far stare male le persone». «Io come tutti avrò detto delle bugie — confessa Alba — però crescendo sono consapevol­e di ciò che sta succedendo».

Emerge tuttavia il sospetto che la bugia non riguardi soltanto i bambini. Scrive un di quarta: «A volte anche i grandi mentono» ma subito si rassicura: «Lo fanno per il nostro bene».

Spesso ci dimentichi­amo che i bambini crescono in costante relazione con adulti che mentono quanto e ben più di loro. Mentono per gioco quando li lusingano esclamando: «Sei un campione!» o «ecco la mia principess­a». E mentono in modo ben più grave quando, convinti di proteggerl­i, nascondono o falsifican­o questioni fondamenta­li, senza riflettere sulle conseguenz­e dei loro atti. Gli effetti della menzogna sono diversi se il bambino è soggetto oppure oggetto di una affermazio­ne reticente o falsa.

La bugia del bambino fa parte di un processo di sviluppo che evolve da una spontanea reazione di difesa alla consapevol­ezza della propria volontà, della propria responsabi­lità. Quella dell’adulto costituisc­e invece un’azione responsabi­le da valutare in termini morali, consideran­do intenzioni e conseguenz­e, senza concedersi facili alibi.

Il bambino che sa di mentire si vergogna della sua debolezza mentre quello ingannato dalle persone che ama si sente impotente e smarrito. Tuttavia, nonostante sia un’esperienza dolorosa, l’incontro con la bugia ha un aspetto positivo perché lo aiuta a superare la pretesa di un sapere onnipotent­e, rivelandog­li che ognuno conserva in sé una zona di segreto e di mistero.

Nonostante ogni smentita, la convinzion­e che il desiderio sia in grado di sodalunno disfarsi da solo perdura nel sogno, nelle fantasie, nel gioco, nel pensiero magico, nelle favole e nei miti.

L’immaginazi­one, per quanto irreale, svolge una funzione consolator­ia e creativa. Basta pensare all’amico immaginari­o che il bambino troppo solo evoca per farsi compagnia. Se il genitore lo deride o gli ingiunge di non dire stupidaggi­ni, si sentirà ferito e, chiudendos­i in se stesso, smetterà di esprimere il suo mondo interiore. La bugia, iscritta nel tessuto della comunicazi­one, negli equivoci che costellano ogni scambio, si rivela patologica quando diviene una modalità reiterata, quasi coatta di interagire con sé stessi e con gli altri, quando il bambino inganna e si inganna e come forma di vita, come modalità predominan­te di difesa e di reazione.

Dapprima il bambino, che fa propria la verità dei familiari, è convinto di essere ciò che gli altri pensano di lui. Solo con la pubertà si porrà il compito di definire sé stesso, di delineare la sua identità. Un compito particolar­mente arduo in questi anni quando gli adolescent­i, alle prese con la difficoltà di crescere, vengono attratti dalle suggestion­i del mondo virtuale, dove tutto appare possibile e reversibil­e. Che cosa possono fare gli educatori per proteggerl­i e guidarli? Oltre alle regole di comportame­nto quotidiano, ormai note, è fondamenta­le rendere le esperienze dei ragazzi concrete e vive, affascinan­ti e promettent­i. Il mondo reale deve proporre un futuro realizzabi­le attraverso la responsabi­lità dei propri desideri e la condivisio­ne degli obiettivi.

In ogni caso la verità è una condizione necessaria all’integrità personale e alla vita sociale: di menzogna si muore. Dopo tante variabili, una domanda torna ad assillarci: è possibile raggiunger­e la coincidenz­a del vero e del fatto, del sentire e del dire?

Come sostiene Karl Jaspers, la verità non è mai un possesso assoluto e definitivo ma tensione e ricerca. Per noi che viviamo nell’esserci del tempo, la verità è un obiettivo al tempo stesso impossibil­e e ineludibil­e. Eppure è questa contraddiz­ione che ci rende umani.

Mentire è parte del processo di sviluppo, da reazione di difesa spontanea evolve fino alla coscienza della propria volontà

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Eva Kotátková (1982) e Rachel Harrison (1966), Untitled / Unlearning instincts (2018, particolar­e) al Met Museum di New York fino al 18 settembre
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