Il vicepremier leghista e le tensioni con i 5 Stelle «Così non si lavora»
E la Lega minacciò di non presentarsi
Secondo Conte il decreto per Genova «non è vuoto». Ma su Genova il Consiglio dei ministri ha rischiato di essere vuoto.
Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, di chi non sapeva cosa gli sarebbe toccato votare, l’altro ieri la delegazione leghista ha minacciato di non partecipare alla riunione di governo: troppo delicata la materia per approvare un testo che non era stato reso noto in pre-consiglio, e sul quale si chiedeva un sostegno a scatola chiusa. Il fatto è che l’appuntamento era stato preceduto dalla gran cassa mediatica grillina, l’indomani si sarebbe celebrata a Genova la ricorrenza della tragedia del Ponte Morandi, e dopo un mese di contrasti e di inerzie, tra enunciazioni ultimative e idee da azzeccagarbugli, il premier non intendeva arrivare nel capoluogo ligure a mani vuote.
In questo governo tutto è polemica, tranne il loro personale rapporto: così Di Maio e Salvini hanno dovuto faticare per trovare un compromesso prima della riunione. Il fatto è che le vicissitudini quotidiane stanno mettendo a dura prova l’intesa cordiale dei due vicepremier, e lo si è visto plasticamente in Consiglio. Anche perché il ministro dell’interno è dovuto intervenire anche su Tria e Moavero, in evidente imbarazzo durante la riunione, se è vero che tanto il titolare della Farnesina quanto il responsabile dell’economia avevano annunciato di non voler partecipare alla votazione.
La presa di distanza dei due ministri non era legata al contrasto che divideva M5S e Lega, incapaci di trovare un accordo sul nome del commissario per la ricostruzione. Sia Tria che Moavero — ecco il dato più allarmante — temevano piuttosto gli aspetti tecnici del decreto, e per le parti di loro competenza volevano analizzare il testo, avere garanzie — per esempio — sul fatto che le norme guida per l’appalto non entrassero in conflitto con le regole europee. Né sembravano bastare le garanzie offerte da Conte, che li esortava ad avere fiducia perché il provvedimento era posto all’esame degli uffici del Quirinale.
In un clima politico pesante, aggravato dalle contestazioni sul merito del sottosegretario alla Presidenza Giorgetti e del ministro Savona, Salvini ha invitato i colleghi di governo a superare le obiezioni perché necessitava dare «un segnale politico» all’opinione pubblica. Traduzione: va evitata la figuraccia. Poi però, da leader della Lega, si è rivolto verso gli alleati grillini ed è andato giù piatto: «Noi abbiamo già portato pazienza sul decreto corruzione. Ma ora basta». A suo modo di vedere va debellata l’annuncite, malattia giovanile di chi si cimenta con le cose di governo, e che affligge alcuni membri dell’esecutivo.
Sentitosi colpito, Toninelli ha provato a replicare: «Ho lavorato notte e giorno al testo». E per quanto Di Maio abbia provato a difenderlo, Salvini ha contestato «il metodo»: «Perché c’è un problema di metodo. Prima si prepara un provvedimento e si trova tra noi un accordo, e dopo viene il resto. Così non si lavora». Era scontato che le regole del «contratto» — scritte in pochi giorni — sarebbero state messe alla prova dalle sollecitazioni dei diversi interessi politici, e soprattutto dagli imprevisti che accompagnano nel tempo la gestione di un Paese. Infatti i più importanti provvedimenti finora varati dal governo sono stati approvati dal Consiglio dei ministri con la formula «salvo intese». Vuol dire che c’è un voto ma non c’è ancora un accordo. È così anche per il decreto Genova. Per questo è «vuoto».