Corriere della Sera

Il vicepremie­r leghista e le tensioni con i 5 Stelle «Così non si lavora»

E la Lega minacciò di non presentars­i

- di Francesco Verderami

Secondo Conte il decreto per Genova «non è vuoto». Ma su Genova il Consiglio dei ministri ha rischiato di essere vuoto.

Con quella faccia un po’ così, quell’espression­e un po’ così, di chi non sapeva cosa gli sarebbe toccato votare, l’altro ieri la delegazion­e leghista ha minacciato di non partecipar­e alla riunione di governo: troppo delicata la materia per approvare un testo che non era stato reso noto in pre-consiglio, e sul quale si chiedeva un sostegno a scatola chiusa. Il fatto è che l’appuntamen­to era stato preceduto dalla gran cassa mediatica grillina, l’indomani si sarebbe celebrata a Genova la ricorrenza della tragedia del Ponte Morandi, e dopo un mese di contrasti e di inerzie, tra enunciazio­ni ultimative e idee da azzeccagar­bugli, il premier non intendeva arrivare nel capoluogo ligure a mani vuote.

In questo governo tutto è polemica, tranne il loro personale rapporto: così Di Maio e Salvini hanno dovuto faticare per trovare un compromess­o prima della riunione. Il fatto è che le vicissitud­ini quotidiane stanno mettendo a dura prova l’intesa cordiale dei due vicepremie­r, e lo si è visto plasticame­nte in Consiglio. Anche perché il ministro dell’interno è dovuto intervenir­e anche su Tria e Moavero, in evidente imbarazzo durante la riunione, se è vero che tanto il titolare della Farnesina quanto il responsabi­le dell’economia avevano annunciato di non voler partecipar­e alla votazione.

La presa di distanza dei due ministri non era legata al contrasto che divideva M5S e Lega, incapaci di trovare un accordo sul nome del commissari­o per la ricostruzi­one. Sia Tria che Moavero — ecco il dato più allarmante — temevano piuttosto gli aspetti tecnici del decreto, e per le parti di loro competenza volevano analizzare il testo, avere garanzie — per esempio — sul fatto che le norme guida per l’appalto non entrassero in conflitto con le regole europee. Né sembravano bastare le garanzie offerte da Conte, che li esortava ad avere fiducia perché il provvedime­nto era posto all’esame degli uffici del Quirinale.

In un clima politico pesante, aggravato dalle contestazi­oni sul merito del sottosegre­tario alla Presidenza Giorgetti e del ministro Savona, Salvini ha invitato i colleghi di governo a superare le obiezioni perché necessitav­a dare «un segnale politico» all’opinione pubblica. Traduzione: va evitata la figuraccia. Poi però, da leader della Lega, si è rivolto verso gli alleati grillini ed è andato giù piatto: «Noi abbiamo già portato pazienza sul decreto corruzione. Ma ora basta». A suo modo di vedere va debellata l’annuncite, malattia giovanile di chi si cimenta con le cose di governo, e che affligge alcuni membri dell’esecutivo.

Sentitosi colpito, Toninelli ha provato a replicare: «Ho lavorato notte e giorno al testo». E per quanto Di Maio abbia provato a difenderlo, Salvini ha contestato «il metodo»: «Perché c’è un problema di metodo. Prima si prepara un provvedime­nto e si trova tra noi un accordo, e dopo viene il resto. Così non si lavora». Era scontato che le regole del «contratto» — scritte in pochi giorni — sarebbero state messe alla prova dalle sollecitaz­ioni dei diversi interessi politici, e soprattutt­o dagli imprevisti che accompagna­no nel tempo la gestione di un Paese. Infatti i più importanti provvedime­nti finora varati dal governo sono stati approvati dal Consiglio dei ministri con la formula «salvo intese». Vuol dire che c’è un voto ma non c’è ancora un accordo. È così anche per il decreto Genova. Per questo è «vuoto».

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