Corriere della Sera

Se passa la regola del «salvo intese»

- di Antonio Polito

Rifaremo il ponte di Genova in un anno, salvo intese. Nomineremo un commissari­o per la ricostruzi­one, salvo intese. Queste frasi fanno a cazzotti col senso comune. Eppure sono ormai la regola del governo giallo-verde. In quella dicitura, «salvo intese», che viene ormai regolarmen­te acclusa ai provvedime­nti di cui si annuncia l’approvazio­ne in Consiglio dei ministri, c’è tutta la difficoltà di una maggioranz­a che non è mai stata una vera e propria coalizione, e cioè un’alleanza politica con un programma comune, ma la somma di due programmi spesso contrastan­ti, combinati insieme tramite un «contratto», costretta quindi ogni volta a cercare un’intesa. E quando non la trova, scrive «salvo intese».

«Salvo intese» è stato pure varato il disegno di legge anticorruz­ione, di cui i Cinquestel­le avevano urgenza per la competizio­ne nei sondaggi con la Lega, ma che Salvini teme possa far nascere un Grande Fratello in grado di «indagare sessanta milioni di italiani». E infatti il testo, che pure risulta approvato il 6 settembre in Consiglio dei ministri, dieci giorni dopo non è ancora arrivato al Parlamento, perché stanno faticosame­nte riscrivend­o i punti controvers­i. Una lunghissim­a gestazione ebbe pure il decreto Dignità, ci vollero settimane perché arrivasse finalmente al Quirinale. Sarà un caso, ma Salvini era assente nella riunione del Consiglio dei ministri che lo approvò, così come era assente per il ddl anticorruz­ione.

Quando nacque il governo, i due contraenti si resero conto che avrebbero potuto spesso finire in un vicolo cieco a causa delle grandi differenze di programma e di cultura politica. E con l’ottimismo illuminist­a di chi si propone di rifare il mondo daccapo, ipotizzaro­no una sorta di obbrobrio giuridico, chiamato «comitato di conciliazi­one», proprio come i moduli degli incidenti stradali. L’idea era di sottrarre al Consiglio dei ministri un potere costituzio­nalmente suo e di affidare a un altro consesso, più ristretto e segreto, il compito di risolvere le dispute e dirimere i contrasti alla maniera dei giudici di pace. Ma finora non se n’è fatto nulla, anche perché dimostrere­bbe per tabulas l’irrilevanz­a del presidente del Consiglio, cui spetta proprio questo lavoro di indirizzo e guida, e anche di gran parte dei ministri, che non contano nulla e stanno sempre zitti, e aspettano prima di vedere come vota Capitano Salvini o Capo Di Maio.

Perciò, come è accaduto con il primo voto di fiducia, di fronte alle inevitabil­i asperità della vita vera i due campioni del cambiament­o hanno finito per adottare una buona vecchia pratica del passato. Bisogna infatti dire che il metodo «salvo intese» non l’hanno inventato Cinquestel­le e Lega. Da quando si è diffuso il virus dell’«annuncite», come Francesco Verderami ha definito sul Corriere questa malattia infantile dei governi spacconi, i Consigli dei ministri si sono ridotti a semplici prologhi della conferenza stampa, con slide o senza: sedi di propaganda politica più che di produzione legislativ­a. Approvano manifesti scritti per il pubblico più che norme destinate alla Gazzetta Ufficiale, che poi per diventare realtà hanno bisogno di decine di decreti attuativi, i quali tardano a volte per anni, rendendo le leggi inattuate.

Un tempo il ministro Tremonti divenne famoso per portare i suoi provvedime­nti in Consiglio in una cartellina vuota: si faceva approvare il titolo e poi li scriveva come voleva lui. Allora era un eccesso di decisionis­mo. Stavolta è incapacità di decidere. Non so che cosa è peggio.

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