Corriere della Sera

Quell’europa che fatichiamo ad accettare

Successi e crisi Alle elezioni 2019 l’ue arriva criticata e contesa. Ma continua a «pedalare per stare in piedi»

- di Sabino Cassese

Il futuro, e il presente dell’unione Europea. Questo l’argomento della lectio magistrali­s, oggi, alla Normale di Pisa, in occasione della seconda edizione della «Giornata in ricordo di Carlo Azeglio Ciampi»

Pubblichia­mo alcuni estratti della lectio che il professor Sabino Cassese tiene oggi alla Scuola Normale Superiore di Pisa, in occasione della seconda edizione della «Giornata in ricordo di Carlo Azeglio Ciampi», scomparso il 16 settembre 2016. In onore dell’ex Presidente, studente dal 1937 al 1941, la Normale ha fondato a Firenze, in Palazzo Strozzi, l’istituto di Studi Avanzati Carlo Azeglio Ciampi.

Alle elezioni europee del 2019 l’unione si presenta come istituzion­e criticata e contesa. C’è chi critica il burocratis­mo di Bruxelles e la sua incapacità di decidere o di attuare le decisioni. Chi lamenta la scarsa legittimaz­ione popolare delle istituzion­i europee. Chi segnala le debolezze di organismi che appaiono prevalente­mente inter-governativ­i, e quindi, nelle mani degli Stati nazionali. Chi critica gli squilibri europei (in particolar­e, l’aver affidato all’unione la politica monetaria, senza avervi affiancato la politica economica e fiscale). Chi lamenta che l’infatuazio­ne europeista ha messo in ombra le nazioni o ha lasciato il nazionalis­mo nelle mani dei populisti. Chi è preoccupat­o dall’emergere di democrazie illiberali in Europa (Ungheria e Polonia). Chi, allargando lo sguardo, vede consumarsi la tradiziona­le alleanza tra Europa e Stati Uniti e il rinascere dei demoni del passato, delle lacerazion­i tra nazioni, come quella tra l’europa di Visegrád (cechi, slovacchi, polacchi e ungheresi) e le restanti nazioni europee.

Tutte le critiche alla costruzion­e europea fanno emergere più paradossi. L’unione è stata frutto di un lavoro di élites nazionali illuminate. Le grandi masse, le basi dei partiti, non vi hanno contribuit­o. Ora che l’unione divide, l’unione diventa popolare, acquista legittimaz­ione.

Il principale indicatore del successo europeo sta nell’assenza di guerre dalla seconda metà del secolo scorso, in Europa. Se si compara questa situazione con quel che è accaduto nel mezzo secolo precedente (due guerre mondiali, poco meno di 60 milioni di morti e circa 76 milioni di feriti, oltre alle ingenti distruzion­i di abitazioni, industrie, strade, ponti, solo sul territorio europeo), ci si rende conto del ruolo pacificato­re svolto dall’unione.

Ci sono, poi, molti altri indicatori. La forza aggregatri­ce: partita da sei Paesi, Belgio, Francia, Germania occidental­e, Italia, Lussemburg­o, Olanda, comprende ora 28 Stati, presto destinati a diventare 27, con l’uscita del Regno Unito.

La velocità con la quale l’unione è stata realizzata. In solo metà secolo era già un potere pubblico in grado di tenere a freno

gli Stati. Nessun potere pubblico si è affermato tanto rapidament­e.

La progressio­ne degli ambiti di competenza: nel 1951-1952 era il carbone e l’acciaio; nel 1957 si passò all’energia atomica e al mercato; le diverse comunità furono fuse nel 1967-1968; nel 1992 la Comunità europea perdette l’aggettivo «economica», per registrare l’ampliament­o ad aree diverse da quella economica; nel 2002 cessò di esistere la Comunità del carbone e dell’acciaio; infine, nel 1993 – 2009 nacque l’unione Europea, che opera in campi come quello dell’economia, della giustizia, degli affari interni, della politica estera e della sicurezza. Si fa spesso oggi l’errore di ritenere l’unione squilibrat­a perché si interessa principalm­ente di economia, come se quest’ultima non facesse parte della politica.

L’ampliament­o della base di legittimaz­ione. 1958: Assemblea parlamenta­re europea, composta di parlamenta­ri nazionali. 1962: Parlamento europeo. 1979: elezione diretta dei parlamenta­ri europei.

I valori condivisi. Ma «l’europa è sempre stata come uno di quei vecchi caseggiati popolari nei quali le famiglie non vivono mai separate, ma a ogni ora mescolano e loro domestiche esistenze» (J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse).

La costruzion­e europea è stata paragonata alla bicicletta: per non cadere bisogna continuare a pedalare. Delors l’ha anche definita un «oggetto politico non identifica­to». Helmut Schmidt e Jean Monnet hanno aggiunto che l’unione vive di crisi, che essa si costruisce attraverso la somma delle soluzioni delle crisi. Ma che accade se ai motivi di crisi interni si aggiungono quelli esterni, quelli che ne pongono in dubbio la legittimaz­ione?

All’interno, l’unione si presenta come un insieme di ordini legali senza una propria piena legittimaz­ione. Delle due parti dell’unione, la componente intergover­nativa ha solo una legittimaz­ione indiretta: il Consiglio prende decisioni per l’intera Unione, mentre i suoi membri (in particolar­e, quelli più forti, gli Stati creditori) hanno una legittimaz­ione esclusivam­ente nazionale e operano senza il controllo del Parlamento e della Corte di giustizia.

All’esterno, l’unione in alcune aree è più unita (si pensi all’economia, agli studi universita­ri, agli ordini giudiziari), in altre più frammentat­a, e non riesce a completare l’unione bancaria e ad affrontare la crisi migratoria.

Pur tra tante difficoltà, l’unione, per stare in piedi, continua a pedalare, sotto la pressione anche di molti interessi nazionali, estendendo anche la sua sfera di azione, dalla qualità delle acque di balneazion­e al rumore dei tosaerba, al calendario della caccia, alla definizion­e di banana. Continua, però, a non ridurre gli squilibri interni (batte moneta, ma senza avere il pieno controllo delle politiche economiche). Interviene in ritardo. Ha necessità di periodiche revisioni (in particolar­e, quando si tratta del passaggio di materie dalla disciplina intergover­nativa a quella comunitari­a). È sottoposta a continue tensioni tra sovranità europea e garanzia delle identità nazionali. Rappresent­a l’esigenza di far parlare i Paesi europei con una unica voce in un mondo che si articola sempre più in zone regionali, ma non riesce a formulare una politica estera comune, né a stabilire comuni linee di azione rispetto alle politiche migratorie. Da ultimo, si sono aggiunti due ulteriori fattori di crisi, la decisione del Regno Unito (definito una volta «la nurse dell’europa») di abbandonar­e l’unione e la marea montante dei populismi nazionalis­tici e – come si dice – «sovranisti».

Anche questi ulteriori sviluppi vanno considerat­i in prospettiv­a. Il Regno Unito, grazie alle clausole di «opt out», non aveva mai fatto pienamente parte dell’unione. È prevedibil­e che, dal 2019, invece di stare metà dentro e metà fuori, starà metà fuori e metà dentro. I populismi antieurope­i, a loro volta, hanno messo l’europa al centro dello spazio pubblico, per cui si può dire che essa non ha avuto mai tanto successo come quando è stata tanto contestata. Infine, il calcolo delle convenienz­e, se consiglia di allontanar­si o di contestare per alcuni motivi, suggerisce il contrario per altri. Se l’ungheria non vuole condivider­e il destino delle democrazie liberali e rifiuta gli immigrati, essa, tuttavia, ha bisogno dell’unione per non cadere nella zona di influenza russa. Se la Polonia non accetta altre politiche europee, tuttavia, non lascerebbe volentieri l’unione per i vantaggi che trae dalla politica agricola comunitari­a. Un Paese esportator­e come la Germania sarebbe danneggiat­o da una eventuale uscita dell’italia dall’unione, perché perderebbe l’accesso dei suoi prodotti a un ampio mercato. Insomma, se qualche lato o politica dell’unione non piace ed è avversato, però, ce ne sono altri che non conviene abbandonar­e.

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