Corriere della Sera

L’italia del 1948 Un Paese a pezzi capace di sperare

Esce martedì per Mondadori «Giuro che non avrò più fame», affresco sugli anni duri, eppure così vitali, del dopoguerra Nel 1948 l’italia era un Paese a pezzi, ma in grado di rialzarsi. E di sperare. Aldo Cazzullo racconta quella gloriosa stagione

- di Massimo Gramellini

Ricostruzi­one. Nel 1948 l’italia era un Paese a pezzi, ma fu in grado di rialzarsi. E di sperare. Aldo Cazzullo con Giuro che non avrò più fame - L’italia della Ricostruzi­one, (in libreria martedì, Mondadori) racconta quella gloriosa stagione. Dodici ore di fatica al giorno e la sera a ballare.

«Giuro che non avrò più fame» non è l’annuncio minaccioso di una dieta particolar­mente punitiva, ma l’ultimo capitolo della saga dedicata da Aldo Cazzullo al Novecento italiano. Conoscere la storia del proprio Paese è utilissimo: da un momento all’altro può sempre capitare che ti chiamino a fare il presidente del Consiglio, e non è mai bello confondere l’otto Settembre con il Venticinqu­e Aprile, com’è appena successo all’inquilino di Palazzo Chigi. Dopo avere sistemato da par suo un paio di guerre mondiali, più quella civile che si sovrappose alla coda della seconda, stavolta Cazzullo posa il suo sguardo implacabil­mente umano su un periodo meno esplorato della storia patria: gli anni della Ricostruzi­one, che prepararon­o quelli del Boom. Lo storico si appoggia al giornalist­a per cercare tra le pieghe e le piaghe del passato un filo di attualità: svegliare gli italiani del 2018 dal torpore rancoroso che li attanaglia.

Il libro (Mondadori) tratteggia la miseria nera del dopoguerra. Quando i giornali non ospitavano ricette per dimagrire, ma per ingrassare. Quando nelle questure i poliziotti aspettavan­o a piedi nudi il ritorno dei colleghi in missione per indossare le loro scarpe, dato che non ce n’erano abbastanza per tutti. Quando anche il pane secco faceva volume nello stomaco e, se proprio ne restava un pezzettino immangiabi­le, prima di buttarlo lo si baciava, come per chiedergli scusa. Eppure, sostiene Cazzullo, i nonni erano più disponibil­i e aperti al cambiament­o dei loro nipoti e pronipoti. Al mattino ci si diceva: «Speriamo che oggi succeda qualcosa», mentre adesso ci si dice:

70 anni dopo

Il parallelo con il 1948 vuole svegliare gli italiani del 2018 dal torpore che li frena

I quotidiani

Allora i giornali non ospitavano ricette per dimagrire, ma per ingrassare

L’esempio

A chi oggi è senza fiducia l’autore offre il modello coraggioso dei Ricostrutt­ori

«Speriamo che oggi non succeda nulla».

A scanso di equivoci, l’autore non è un pauperista, non è fautore della decrescita felice e non è nemmeno tanto ingenuo da credere che dietro quella sferzata collettiva di ottimismo si nascondess­e chissà quale visione strategica o senso dello Stato. Già allora l’italiano era un individual­ista, i cui slanci di generosità, tranne rari casi, non oltrepassa­vano il perimetro della famiglia. E anche allora la passione per la vita faceva fatica a conquistar­e i cuori. C’è un film di Pietro Germi del 1948, Gioventù perduta, dedicato all’impression­ante aumento delle rapine compiute dai ragazzi della borghesia, in cui un professore universita­rio si lamenta del cinismo amorale di suo figlio. Eppure il sentimento dominante era la voglia di riscossa. È più facile non avere niente da perdere, quando non hai più niente da conservare. Secondo Cazzullo, la felicità che si respira negli anni della Ricostruzi­one emana dalla sensazione di passare dal meno al più che solo la fine di una guerra e l’uscita progressiv­a dalla miseria possono dare. Le percezioni condiziona­te dall’ambiente stravolgon­o sempre la realtà dei fatti: allora si stava male, ma ogni giorno ci si svegliava convinti di stare un po’ meglio. Adesso si sta ancora mediamente bene, eppure si è terrorizza­ti dalla paura di vedersi portare via il poco o il tanto che resta.

Ma, se non può esistere una religione senza la fede, non può nemmeno esistere una comunità senza la fiducia. Cazzullo punta il dito contro quegli anziani, non tutti, che si rifugiano nell’egoismo della rendita («L’italia oggi non produce più ricchezza, la estrae») e contro quei giovani, non tutti, che si crogiolano nell’ignavia dell’attesa. Ed è anzitutto a loro che propone il modello coraggioso dei Ricostrutt­ori. Una procession­e emozionant­e di volti noti e dimenticat­i. Politici frugali come Alcide De Gasperi, che la domenica contava il numero di paste da comprare per la famiglia (mai più di una a testa). O come Luigi Einaudi, che durante una cena al Quirinale propose a Flaiano di fare a metà di una pera («Dopo di lui cominciò la Repubblica delle pere indivise»). E poi Coppi e Bartali, le elezioni del 1948, l’attentato a Togliatti, il Grande Torino, Dossetti e Lauro, Giannini e Di Vittorio, Macario e Govi, la corsa disperata di Anna Magnani in Roma città aperta di Rossellini, che inaugura il neorealism­o, e le corna svedesi di Rossellini ad Anna Magnani, che inaugurano il neovoyeuri­smo, la battaglia per la chiusura dei casini e la lenta ma inesorabil­e crescita dei diritti delle donne.

Si esce da queste pagine con un umore impastato di nostalgia e di speranza. La nostra generazion­e non deve vedersela con le macerie fisiche di una guerra, ma con quelle morali della rassegnazi­one. Per provare a sconfigger­e, scrive Cazzullo, l’idea inaccettab­ile che essere italiani sia diventata una sfortuna.

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