Corriere della Sera

Fukuyama e il populismo: «In passato è stato utile Il problema sono i leader»

Il politologo: «Orbán, Trump e Salvini sono opportunis­ti»

- Di Massimo Gaggi

NEW YORK Ma allora il populismo è una malattia da sradicare, potenzialm­ente mortale per la democrazia, o una reazione comprensib­ile agli errori compiuti dalle classi dirigenti che, a certe condizioni, può anche diventare una risorsa?

«Dipende dai leader» risponde Francis Fukuyama. «Quelli attuali — penso soprattutt­o a Trump, Orbán e Salvini — sono degli opportunis­ti che sanno solo trarre vantaggio dallo scontento e dalle paure di molti cittadini. Ma non è stato sempre così».

Sono le sei e mezzo del mattino: l’ora in cui, in una giornata newyorches­e molto intensa, lo storico della Stanford University, autore del celebre La fine della storia, pubblicato dopo la dissoluzio­ne del blocco sovietico, e di molti altri saggi sulla crisi della democrazia, è riuscito a trovare uno spicchio di tempo per rispondere alle domande del Corriere.

In un’intervista di un anno fa al nostro giornale lei citò il caso del presidente Andrew Jackson, eletto nel 1829, come un esempio di populismo deteriore: detestava le élite, volle governare senza esperti e fece disastri. Con lui e per molto tempo dopo l’america ebbe un’amministra­zione inefficien­te e corrotta. Ma in «Identity», il suo ultimo saggio, appena uscito, lei cita anche il populismo costruttiv­o col quale, nel 1932, Franklin Delano Roosevelt alimentò il suo New Deal.

«Certo: nella storia non mancano esempi di populismo utile. Gli Stati Uniti d’america sono nati da una rivolta populista: lotta contro l’oppression­e coloniale, ma anche contro la burocrazia britannica e le sue tasse. E anche il nazionalis­mo ha avuto spesso una funzione utile. Oggi ha una cattiva reputazion­e per quello che è successo nella prima metà del Ventesimo secolo, ma ce ne sono varie forme. C’è un nazionalis­mo liberale e non aggressivo che accetta le persone con differenze culturali, che rafforza la democrazia con un sentire comune, con obiettivi condivisi che diventano collante sociale».

Trump, che sfida l’establishm­ent e oppone al multilater­alismo una rete di alleanze tra governi nazionalis­ti, fa proseliti.

«Se Trump non avesse vinto le elezioni, non avrei scritto Identity. Bisogna capire cosa c’è dietro il fenomeno che lui incarna. Ci sono gli impatti economici devastanti di due crisi: il crollo finanziari­o di dieci anni fa, quello provocato dal crac Lehman e, più di recente in Europa, la crisi del debito greco. Ma non si tratta solo di economia. Ci sono anche ferite culturali come il malessere per la perdita d’identità, sempre più sbiadita in tempi di globalizza­zione e di fenomeni migratori imponenti, spesso gestiti con poca lungimiran­za dai governi occidental­i. Le élite, insomma, hanno le loro colpe e la reazione populista è comprensib­ile. Solo che la cura — protezioni­smo e xenofobia — è peggiore della malattia».

L’erosione è cominciata ben prima del crollo della Lehman. Lei stesso nota, nel suo saggio, che l’impoverime­nto dell’america che vota Trump è iniziato 40 anni fa.

«Vero, ma, come le dicevo, la crisi, esacerbata dall’impoverime­nto, non è solo economica. E questo rende tutto più difficile: per uscirne non basta fare riforme, governare meglio. Bisogna affrontare il malessere per la perdita d’identità, il risentimen­to, il bisogno di essere riconosciu­ti: l’ira dei propri cittadini, ma anche quella di altri Paesi. La forza di Putin in Russia, di Xi Jinping in Cina e di Orbán in Ungheria è anche quella di dichiarare che la loro politica è una reazione alle umiliazion­i subite per decenni dalle loro nazioni. Quanto all’italia, è vero: la crescita è bloccata da ben più di un decennio. Ma se Salvini emerge oggi con tanta forza è per una crisi d’identità legata soprattutt­o ai fenomeni migratori».

Un’onda potente, non facile da gestire. Vede terapie praticabil­i?

«Flussi enormi, certo, ma l’europa poteva affrontarl­i meglio. Intanto quella di chiudere la rotta balcanica è stata una scelta politica, accettata da Bruxelles, che ha scaricato tutta la pressione su Italia e Grecia. E poi i flussi vanno gestiti. Vanno regolati in modo da non travolgere le identità nazionali. Al tempo stesso, però, queste identità non possono essere basate su criteri etnici. Lo ius sanguinis deve lasciare il campo allo ius soli, altrimenti la cittadinan­za diventa una barriera insuperabi­le all’integrazio­ne. I processi di assimilazi­one, essenziali, a volte falliscono non per atteggiame­nti razzisti, ma per errori sul piano educativo o perché si fa entrare un numero troppo elevato di immigrati. Nel 2015 la Merkel ha sbagliato perché ha accettato troppi rifugiati rispetto alle capacità di assimilazi­one del Paese. La Germania, poi, pur finanziand­o le scuole musulmane e delle altre religioni, non è un esempio virtuoso perché tende a mantenere la divisione tra diverse culture ed etnie. Vale anche per l’olanda dove gli studenti sono segregati per religione. Errori che stanno costando cari alla cancellier­a».

d Identità

C’è un malessere per la perdita d’identità sempre più sbiadita in tempi di globalizza­zione

d Ius soli

Lo ius sanguinis deve lasciare il campo allo ius soli perché è una barriera all’integrazio­ne

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In ascesaIl primo ministro ungherese Viktor Orbán guida il gruppo di Visegrád che porta avanti posizioni sovraniste (Afp /Gali Tibbon)

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