Corriere della Sera

LAMBERTO FRESCOBALD­I

- (foto Massimo Sestini) (Reuters)

fresco, con qualche piccola pioggia seguita da una soffiatina di tramontana, e poi di giorno perfetto cielo azzurro. Non crede che l’ansia sia giustifica­ta nonostante noi si faccia vino da vari anni?».

Da quanti anni?

«Stando agli archivi dal 1300. Ma è dal 1000 che c’è notizia della famiglia in Toscana: eravamo commercian­ti venuti dalla Germania, insediati a Limite sull’arno, un abitato chiamato così perché le navi provenient­i dal mare riuscivano a risalire il fiume fino a lì. Due secoli dopo, a fortuna fatta, il trasferime­nto a Firenze dove fu acquistato un terreno di là d’arno che divenne sede del magazzino, trasformat­o poi con il tempo in abitazione, nucleo primario dell’attuale palazzo di via Santo Spirito che abitiamo da trentacinq­ue generazion­i. Poi costruimmo anche un ponte, il Santa Trinita, per facilitare traffici e comunicazi­oni tra i quartieri divisi dal fiume. Così bene andarono gli antichi commerci che, per amministra­re i ricavi fu ragionevol­e trasformar­ci in banchieri, in un’epoca, peraltro, in cui Firenze era la città delle banche che prestava denaro a tutti i regnanti d’europa, tanto che il fiorino fiorentino divenne una moneta internazio­nale, specie di euro ante litteram. Le famiglie reali avevano tutte bisogno di soldi per le loro guerre ma li restituiva­no soltanto se le guerre le vincevano: perciò i banchieri dovevano soppesare bene a quale testa coronata prestare denaro».

E a voi come andò?

«Male perché scegliemmo di sostenere la corona inglese che fu sconfitta dai francesi, finanziati dai più fortunati Medici. E pensare che un ramo della famiglia si era appositame­nte trasferito in Inghilterr­a per seguire da vicino l’affare. Meglio andò al ramo rimasto in Toscana, anche se, a un certo punto, per frenare l’appetito dei banchieri fiorentini che praticavan­o tassi d’interesse sempre più alti, la Chiesa impose loro delle opere per la comunità come condizione per salvarsi da sicura dannazione eterna. Ed è questa una delle ragioni per cui Firenze ha tante chiese. Ne fece costruire una anche la mia famiglia».

Quale?

«La chiesa di Santo Spirito, a un passo da casa, affidando i lavori a Brunellesc­hi. Ci fu il problema dell’orientamen­to perché tutte le chiese della città dovevano guardare verso il Duomo, di qua d’arno, ma per fare questo si sarebbe dovuto abbattere una parte del palazzo. La famiglia allora ebbe un colloquio con il prestigios­o architetto che alla fine acconsentì a modificare il progetto. E così la chiesa di Santo Spirito fu la prima a non guardare il Duomo. Chiaro che una volta realizzata l’opera per la Nel Quattrocen­to I banchieri praticavan­o tassi sempre più alti: la Chiesa chiedeva opere per evitare l’eterna dannazione e i miei antenati fecero costruire S. Spirito a Brunellesc­hi

La famiglia

I miei tre figli, Vittorio, Leonia e Carlo sono già tutti all’estero a studiare o lavorare Ho molta paura che a Firenze non torneranno più comunità, i banchieri tornarono ai loro esosissimi tassi d’interesse. È a quell’epoca che cominciamm­o a piantare vigne seguendo l’esempio di varie altre famiglie fiorentine che investivan­o i proventi dell’attività finanziari­a in terreni agricoli seminati a grano, piantumati a ulivi e viti. Ma è soltanto negli ultimi cento anni che viticultur­a e vinificazi­one sono diventati l’attività principale della famiglia, composta oggi da una quarantina di persone, quasi tutte domiciliat­e qui a palazzo».

Tanti fratelli, cugini, zii, nipoti: come mai è toccato proprio a lei guidare l’azienda?

«Sono l’unico che ha studiato viticoltur­a (in America) e ho sempre avuto una grande passione per la campagna. Ma in realtà ho rischiato di rimanere fuori dall’azienda, di non esercitare mai la profession­e per la quale avevo studiato».

Non sarebbe, dunque, diventato vignaiolo, bensì?

«Carabinier­e. Di ritorno dall’america ho fatto il servizio militare con la divisa dell’arma, ero di stanza a Fiumicino, e quella vita mi piaceva molto. Naturalmen­te conoscevo l’azienda di famiglia, nelle vacanze ci ho sempre lavorato, ma l’idea di avviarmi lungo un cammino già predispost­o, dal quale non avrei più potuto deviare, non mi sorrideva affatto, tanto che a un certo punto decisi di restare carabinier­e. Fu mia moglie — o forse allora era ancora la fidanzata — che venne a Fiumicino a dirmi: “Ma sei scemo? L’unico tra fratelli e cugini che ha studiato agricoltur­a non vuole entrare in azienda?”».

Una moglie intelligen­te.

«Sì, Eleonora è per me una supporter preziosa oltre che una madre straordina­ria per i nostri tre figli, Vittorio, Leonia e Carlo, 25, 24 e 22 anni, tutti già all’estero a studiare o lavorare, e ho molta paura che a Firenze non torneranno mai».

Altri consiglier­i?

«Mio padre Vittorio. Mi ha instradato nel mestiere, fin da ragazzo, senza che me ne rendessi conto. E, pur novantenne, oggi non resta soltanto elemento di benefico equilibrio nella grande famiglia, ma anche esperto suggeritor­e e consiglier­e: da lui ho, per esempio, imparato un principio fondamenta­le, e cioè che tra focolare e azienda, per quanto possa suonare arido, va comunque scelta l’azienda, perché se questa va male va a rotoli anche il focolare. Anzi, i focolari. Abbiamo degli obblighi nei confronti dei nostri cinquecent­ocinquanta dipendenti: le pare che possiamo anteporre questioni famigliari al bene dell’azienda?».

E come si fa, con un clan così ramificato, a mettere d’accordo le aspirazion­i e le ambizio-

Chi è

● Lamberto Frescobald­i nasce a Firenze nel 1963. Rappresent­a la trentesima generazion­e di viticoltor­i della famiglia

● Nel 1983 si iscrive alla Facoltà di Agraria dell’università di Firenze, poi si trasferisc­e per 2 anni all’università di Davis, California, per specializz­arsi in viticoltur­a, e si laurea nel 1987

● Tornato in Italia, diventa ufficiale dell’arma dei Carabinier­i

● Nel 1989 entra in azienda, con crescenti responsabi­lità fino alla carica di vicepresid­ente (2007) e presidente del consiglio di amministra­zione (2013) di Marchesi de’ Frescobald­i

ni di tutti quanti, impedendo che si creino disaccordi e divisioni, fatali per il buon andamento dell’impresa?

«Ci siamo messi insieme, ci siamo fatti assistere da un esperto del ramo, un docente della Bocconi, e con lui abbiamo elaborato una specie di statuto che, tra l’altro, fissa le regole per l’ingresso in azienda di un membro della famiglia. Deve essere laureato, avere ottenuto un master in qualche materia utile per la nostra profession­e e poter vantare un’esperienza di lavoro di almeno cinque anni. Naturalmen­te ci deve essere anche la necessità aziendale, nel senso che non si creano dei posti per sistemare un parente».

Commercian­ti, banchieri e poi vignaioli. Ma i Frescobald­i possono vantare anche artisti e intellettu­ali in famiglia. Ci fu per esempio un antico Lamberto, poeta stilnovist­a, amico e coetaneo di Dante. Poi ci fu il musicista Girolamo, uno dei maggiori compositor­i per clavicemba­lo del diciassett­esimo secolo. Infine il giornalist­a Dino, il maggiore dei sei fratelli di Vittorio, che fu nostro collega al «Corriere». Lei oggi rivendica con fierezza il suo mestiere di viticoltor­e. Di che cosa, in particolar­e, va orgoglioso?

«Per esempio di quello che abbiamo fatto alla Gorgona. Era sei anni fa, in pieno agosto, quando mi arriva una mail da parte della direttrice di quel carcere. Chiedeva se potevamo farci carico dell’ettaro di vigneto che si trova sull’isola insegnando ai detenuti coltivazio­ne delle viti e vinificazi­one. Lì per lì rimasi incerto, l’idea un po’ mi spaventava, ma mia moglie mi spinse ad accettare. È così incomincia­ta un’avventura che oserei definire felice. Un po’ alla volta abbiamo ampliato il vigneto affittando altri ettari di demanio, a rotazione assumiamo, con regolare stipendio da operai, diciotto detenuti, scelti dalla direttrice in base alla condotta , escludendo soltanto i 41 bis e i condannati per reati sessuali. Il risultato sono cinquemila bottiglie all’anno di un grande bianco che abbiamo chiamato “Gorgona”. Ovvio che l’iniziativa è in perdita, ma per me è passata “in vincita” il giorno in cui ho sentito un detenuto raccontare a un educatore che i suoi figli non dicevano più che il papà era in prigione ma che lavorava per un’azienda vitivinico­la. Per me si tratta di restituire qualcosa del tanto che ho avuto. Un giorno poi mi è venuta la curiosità di chiedere alla direttrice perché avesse scelto proprio me, e lei mi ha risposto, quasi meraviglia­ta, che non aveva affatto scelto me ma che tra il centinaio di destinatar­i della sua mail — le maggiori case vinicole d’italia — io ero stato il solo a rispondere».

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Con la moglie con Eleonora Lamberto Frescobald­i
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