La nascita della «Commedia»
Il poema di Dante continua a porre problemi agli esegeti: restano dubbi su genesi e trascrizioni
Un supertascabile così elegante non si era mai visto: due tomi rossi con titoli dorati dentro un cofanetto dello stesso colore e con gli stessi fregi. L’autore indubbiamente se lo meritava, visto che si tratta di Dante Alighieri. La Divina Commedia con commento (necessariamente essenziale) in un volume di oltre mille pagine e un Dizionario del poema di eguale consistenza e dimensione (7x11 cm). Enrico Malato — editore della Salerno, studioso della tradizione letteraria dei primi secoli e dantista — ha promesso l’edizione commentata in occasione del Settecentesimo della morte (2021) e con questa piccola-grande impresa, consegnata alla collana Diamanti, ne offre un’anticipazione destinata al grande pubblico che abbia voglia di portarsi in tasca il capolavoro per eccellenza. Dopo verrà l’editio maior, come dicono gli specialisti, nella Nuova Edizione commentata delle Opere di Dante (Necod), la collana che già dispone di tutti i testi dell’alighieri con nuovi commenti, eccetto, per il momento, il Convivio (che sarà a cura di Andrea Mazzucchi) e la Commedia. Tra le tappe di avvicinamento a quest’ultima, c’è un lungo saggio di Malato intitolato Per una nuova edizione commentata della Divina Commedia apparso prima in rivista e di recente come quaderno autonomo del «Centro Pio Rajna» e di cui fanno tesoro i due volumi dei Diamanti. Perché il lettore comune capisca di che cosa si tratta, è necessaria una premessa con ciò che segue: il testo del poema dantesco pone da sempre agli esegeti una serie di problemi di difficile soluzione. Il fatto che non è sopravvissuto un solo autografo di Dante ci costringe a leggere le sue opere in copie più o meno tarde e più o meno attendibili: pane durissimo per i denti dei filologi.
La ricostruzione della genesi del poema e delle varie fasi di uscita è piena di «probabilmente». Le tre cantiche della Commedia, la cui composizione fu probabilmente iniziata tra il 1305 e il 1306 (secondo qualcuno anche il ’7), apparvero probabilmente in tempi diversi e probabilmente una sporadica circolazione dei canti dell’inferno e del Purgatorio ebbe luogo già tra la fine del primo e gli inizi del secondo decennio del secolo; ma la «pubblicazione» delle prime due cantiche, in una forma redazionale considerata definitiva dall’autore, avvenne probabilmente tra l’autunno 1313 e l’inizio del 1314. Il Paradiso, frutto di una seconda fase di lavoro che seguì l’elaborazione del trattato politico De Monarchia, sarebbe uscita, probabilmente, dopo la morte del poeta, cioè dopo il settembre 1321, grazie ai figli Pietro e Jacopo.
Non è probabile ma certo che la prima esplicita citazione dell’inferno si trova a margine di un manoscritto dei Documenti d’amore del notaio fiorentino Francesco da Barberino, collocabile attorno alla fine del 1313, inizio del 1314. Va segnalato però che un prezioso libro d’ore, compilato prima del 1309 dallo stesso Francesco, l’officiolum, contenuto in un magnifico manoscritto scomparso per secoli e ritrovato nel 2003, testimonia la conoscenza della Commedia a Padova appunto nel primo decennio del ’300: in esso si trovano raffigurazioni di dannati danteschi, tra cui sembra di riconoscere Paolo e Francesca. Altre tracce del poema compaiono nel 1315 e ’16 tra Siena, Mantova e Firenze, mentre nel triennio seguente si riscontrano frammenti dell’inferno nei registri dei notai bolognesi.
La diversa qualità dei manoscritti (alcuni modesti, altri lussuosi) fa pensare che tutti gli strati sociali leggevano il poema di Dante, senza tralasciare che veniva pure mandato a memoria come documentano due novelle di Franco Sacchetti (fine ’300), dove si narra di un fabbro e di un asinaio che lavorando recitano versi della Commedia. Fatto sta che, morto Dante, la richiesta di copie si moltiplicò a dismisura: oggi rimangono circa ottocento codici e chissà quanti altri sono andati perduti. Il copista più illustre fu niente meno che Giovanni Boccaccio. Ma più cresceva l’«industria» delle copie dantesche, più fiorivano le contaminazioni testuali che passavano da codice a codice, con l’aggiunta di nuovi equivoci di lettura, di goffi tentativi di «correggere» e magari semplificare le asperità: il risultato è una serie di testi copiati trasmessi senza scrupoli di fedeltà all’originale.
Pane durissimo, si diceva, per i denti dei filologi. Ma niente di più affascinante che andare a ricostruire, passo dopo passo, le possibili volontà dell’autore. Il primo a provarci, nel 1862, fu il tedesco Karl Witte, poi venne l’inglese Edward Moore, che studiando duecento manoscritti nel 1904 pubblicò un’edizione critica nota come Oxford Dante. Nel sesto centenario della morte, 1921, toccò a Giuseppe Vandelli, della scuola fiorentina di Pio Rajna e Michele Barbi, proporre una sua Commedia con soluzioni ad hoc per ciascuno dei 396 versi che contenevano loci critici, cioè varianti tra i manoscritti, particolarmente significativi. Due anni dopo si deve a Mario Casella un testo della Commedia ancora differente, fondato su criteri stemmatici (cioè in base alla genealogia dei manoscritti) risalenti al filologo tedesco Karl Lachmann. Ma nel 1966-’67, con l’edizione nazionale di Giorgio Petrocchi, cui contribuì anche Gianfranco Contini, tutto cambia: i codici presi in considerazione si riducono alla trentina (la cosiddetta «antica vulgata») precedente il 1355 e dunque anteriore al lavoro di copiatura e di ricostruzione operato dal Boccaccio, grande estimatore di Dante ma non esente da interventi ulteriori di corruzione del testo. Petrocchi divideva i codici antichi in due grandi famiglie: quella diffusa nell’italia settentrionale e quella localizzata nell’italia centrale; ma discuteva anche ogni passo dubbio del testo.
Per decenni, nonostante le consistenti riserve, quello di Petrocchi è stato ritenuto il testo-base della Commedia, imprescindibile anche per il fatto che conteneva le varianti sia pure di un corpus limitato di testimoni. Per il suo commento, Malato riparte da qui, tenendo conto dei numerosi contributi filologici dell’ultimo mezzo secolo, considerando poco attendibili le edizioni successive di Antonio Lanza (1995) e di Federico Sanguineti (2001) e ridiscutendo centinaia di passaggi: l’interpretazione viene messa al servizio del restauro testuale. L’esame puntuale di ogni passo della Commedia comporta delle sorprese anche sul piano della punteggiatura in direzione di una maggiore leggibilità e talvolta anche di una nuova coerenza semantica (lo spostamento di una virgola crea qua e là significati più plausibili). Per chi voglia indagare al rallentatore le proposte di Malato è a disposizione il saggio citato (Per una nuova edizione…); per tutti gli amanti di Dante, il cofanetto dei Diamanti è concepito come un «vademecum» di agile consultazione con aggiunta quella sorta di piccola enciclopedia dantesca costituita dal Dizionario, dove il lettore troverà ragguagli sui 913 personaggi citati nella Commedia, sui luoghi, sui riferimenti mitologici, astronomici e storici, sul lessico filosofico e tecnico, oltre a una serie di tavole fuori testo in formato minimo che illustrano il cosmo dantesco e le varie parti dell’aldilà così come si configura nel viaggio ultraterreno narrato da Dante.
In un suggestivo paragrafo dell’introduzione, Malato motiva il particolare significato numerologico da attribuire al Settecentesimo della morte del Divin Poeta, «non un centenario come altri», scrive: «Sono 700 anni, cento volte sette, che per Dante è il numero sacro per eccellenza: 7 furono i giorni della creazione; 7 sono le virtù (4 cardinali + 3 teologali), cui corrisponde la loro negazione, nei 7 vizi capitali; settemplice, “costituito di sette elementi”, è lo Spirito di Dio, da cui derivano i 7 doni dello Spirito Santo, simbolicamente evocati nella processione mistica del paradiso terrestre, con i 7 candelabri che lasciano altrettante scie luminose dietro di sé; 7, ancora, sono le cornici del purgatorio e 7 i cieli, 7 i sigilli dell’apocalisse, 7 i sacramenti…». E così via, fino a vedere imperniata sul 7 l’intera struttura dell’opera. Difficile dire se siano coincidenze casuali o soluzioni volute dal genio dell’autore. Del resto, a voler approfondire, le cifre del suo anno di morte 1321, sommate, danno 7 e 21 è un suo multiplo. Ma, almeno per il momento, va escluso che l’abbia voluto.
Eredità
Oggi rimangono circa ottocento codici. Il copista più illustre fu niente meno che Giovanni Boccaccio