Corriere della Sera

LA SINISTRA CHE IGNORA I DEBOLI

- di Antonio Polito

C’ è forse un nesso tra il crac della Lehman Brothers, la banca d’affari che diede il via alla grande recessione, e il fallimento elettorale del Pd. Nel 2008, quattro mesi prima che a New York iniziasse la fine del turbo capitalism­o finanziari­o, il Partito democratic­o di Veltroni otteneva in Italia alle elezioni politiche dodici milioni e passa di voti; cinque anni dopo con Bersani, nel pieno della crisi del debito in Europa, otto milioni e mezzo; altri cinque anni e, nel 2018, a recessione finita, i voti di Renzi sono scesi a sei milioni e rotti. Un elettorato dimezzato in una decade. E secondo i sondaggi in continuo restringim­ento.

Forse il destino del Pd era già scritto in quella data di nascita. La sinistra italiana, di origine marxista, approdò con troppo ritardo al tentativo di trasformar­si in una sinistra liberale, più protesa alla creazione di ricchezza che alla sua distribuzi­one, sulla scia del successo di Clinton negli Usa e di Blair in Europa. Costruì così un telaio, il Pd, che era fatto per la Formula Uno, per far correre l’economia il più velocement­e possibile senza fermarsi ad aspettare i perdenti, nella convinzion­e che sarebbero stati prima o poi recuperati da una crescita ormai senza più cicli e limiti. Il programma del Lingotto ne fu la summa: anche simbolicam­ente, in casa Fiat. Poi la storia è andata diversamen­te. L’economia italiana ha dovuto arrancare su un terreno sconnesso e minato, e di caduti lungo la strada ce ne sono stati tanti.

Ma il Pd non era più attrezzato per ascoltare i deboli. La retorica delle opportunit­à in cambio di sacrifici è così proseguita anche oltre il ragionevol­e, tentando di mettere insieme la Coop con Amazon, come dice Aldo Bonomi, il sindacato con Marchionne, i risparmiat­ori coi banchieri, l’artigiano con la Fornero. E dura ancora: il segretario Martina propone per il 30 settembre una manifestaz­ione dell’«italia che non ha paura», mentre è così evidente che il suo problema sta proprio nell’italia che ha paura, perché non vive nella Ztl delle grandi città e non può mandare il figlio a Londra per un master. Cosi l’intera scommessa su cui si basava il nuovo partito è naufragata, prima nella lunga recessione italiana e poi, ancor di più, nella troppo debole ripresa.

Una tale catastrofe politica può indurre sentimenti di sconforto, o accendere desideri di vendetta. L’uno e l’altro stato d’animo sono abbondante­mente presenti nel dibattito interno a quel partito; specialmen­te in chi, non essendo riuscito a guidarlo, ora vorrebbe scioglierl­o, naturalmen­te restandone al comando; oppure propone di rifondarlo in una cena privata o sul lettino di uno psichiatra. Tutto ciò è offensivo per migliaia di militanti e milioni di elettori. Il Pd non va buttato. È ancora uno dei più grandi partiti della sinistra europea, e ha reso più di un servizio alla Repubblica negli anni peggiori di questa decade. Chi ha a cuore la democrazia e il pluralismo politico non può davvero augurarsi la scomparsa di un partito di massa, per quanto acciaccato e pesto sia.

Ma per essere salvato da un gruppo di dirigenti che sembra aver perso la testa, il Pd deve fare una scelta. Una possibilit­à è auto-annettersi al populismo, come ha fatto Corbyn in Gran Bretagna, nazione in cui però non ci sono già, come da noi, due grandi partiti che occupano quell’area. Ma attenzione: anche

solo scimmiotta­rne lo stile, come è accaduto quando il Pd ha addirittur­a occupato l’aula di Montecitor­io per impedire un voto di fiducia su un decreto qualsiasi, può portare acqua al mulino del populismo: non si può ricostruir­e la credibilit­à di un’opposizion­e sul sabotaggio e sulla ripicca. Soprattutt­o quando, al governo, il voto di fiducia lo si è messo perfino sulla legge elettorale.

Oppure il Pd può decidere che non vale la pena di buttare questi dieci anni e che intende restare nella sinistra liberale. Ma allora deve fare i conti con la sconfitta che questo pensiero politico ha conosciuto in tutto l’occidente. E non deve aver paura di trarne conseguenz­e radicali.

È ciò che invita a fare il manifesto dell’economist per «un nuovo liberalism­o», che non può più apparire, come è stato in questi anni, dalla parte della rendita, dei magnati, dei monopolist­i privati che si sostituisc­ono a quelli pubblici, e dei furbi. Il settimanal­e inglese ricorda di essere nato,

175 anni fa, per battersi contro le Corn Laws, in difesa cioè dei poveri che dovevano comprarsi il pane e contro i grandi proprietar­i terrieri che avrebbero guadagnato dal protezioni­smo sul grano.

Questa carica delle origini si è persa. Un po’ ovunque, da Hillary Clinton a Matteo Renzi, i leader della sinistra liberale sono invece diventati agli occhi della gente una élite compiaciut­a di se stessa e compiacent­e con i più forti. E non per carattere o per antipatia, come si dice oggi; ma proprio perché, convinti che la modernità fosse un pranzo di gala, non hanno avuto il coraggio del radicalism­o politico cui la chiama il manifesto dell’economist.

Perciò oggi non hanno le carte in regola per proporre un futuro migliore a opinioni pubbliche che sembrano invece sprofondar­e nella nostalgia del passato, pericolosa quando si rivolta anche contro la democrazia e la tolleranza. Errori ne abbiamo commessi anche noi, osservator­i, commentato­ri, intel- lettuali schierati dalla parte delle libertà economiche e politiche, incapaci di lanciare per tempo o con la necessaria forza l’allarme per la deriva lungo la quale le nostre società stavano scivolando. L’italia, come tutto il mondo, ha tratto progresso e prosperità dalla libertà, e non deve invertire la rotta.

Ma se il Pd vuol fare parte di questa battaglia deve rapidament­e rimettersi in piedi. Deve capire, smettendo ogni sciovinism­o e liberandos­i da qualsiasi ipoteca, che oggi è parte del problema italiano, e non della soluzione. È una questione di idee: ne devono venire di nuove, e di migliori. Ed è una questione di leader, che tanto più credibili saranno quanto meno hanno condiviso gli errori di questi anni.

Soprattutt­o, è una scelta che spetta alla gente del Pd, a chi ancora ci crede e che ancora lo vota. Solo loro sono i proprietar­i del marchio, e devono riprenders­i il destino nelle proprie mani.

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