Corriere della Sera

Quei 62 bambini dietro le sbarre «Poche strutture»

- Di Alessandra Arachi e Rinaldo Frignani

Sono sessantadu­e in Italia i bimbi costretti a vivere dietro le sbarre per stare vicino alle loro mamme detenute. Due di questi sono i fratellini coinvolti nella tragedia che si è consumata ieri a Rebibbia, il carcere alla periferia di Roma che vantava un primato con i 16 bambini ospiti nel nido.

Suona come un ossimoro parlare di bimbi e di sbarre delle carceri. Eppure attualment­e ci sono almeno una trentina di piccolissi­mi — da zero a tre anni — che frequentan­o le carceri, quelle vere e dure, non come gli Icam, gli Istituti di custodia attenuata — dove non ci sono sbarre, l’atmosfera è soft e gli agenti di custodia non indossano la divisa.

È proprio negli Icam che vive l’altra metà dei bimbi censiti dal ministero della Giustizia, quindi un’altra trentina, e la legge prevede che in questi istituti possono rimanere con le loro mamme anche fino a sei anni.

«Gi Icam sono a Torino e a Milano, a Venezia Giudecca e a Lauro, in Campania, uno vicino a Cagliari», dice Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà e fa il punto sulla legge in vigore. Spiega, infatti: «Il problema dei bambini da zero a tre anni rimane troppo spesso senza soluzione. La legge attuale — la cosiddetta legge Finocchiar­o — è una buona legge ma rimane molto inapplicat­a. La questione principale sono le case-famiglia protette che fanno vivere i bambini con le mamme in un ambiente familiare. Ma ce ne sono soltanto due in tutta Italia». Una, a Roma, si chiama la «Casa di Leda», ospita otto mamme e otto piccoli ed è un esempio di come potrebbe funzionare davvero la legge.

«Il punto però è che nessuno alla fine stanzia fondi per le case-famiglia», denuncia Susanna Marietti, che è la coordinatr­ice nazionale di Antigone e conosce da vicino la questione.

Aggiunge Marietti: «Se un dramma del genere è avvenuto in una struttura gestita in maniera magistrale come Rebibbia allora bisogna davvero preoccupar­si».

Il garante Mauro Palma non riesce a trovare una responsabi­lità per la tragedia in chi gestisce il carcere della Capitale. «È un istituto ben diretto — dice —, quello che è successo non mi fa pensare ad alcun tipo di responsabi­lità specifiche. E nella situazione paradossal­e dei nidi dentro le carceri, quello di Rebibbia è certamente un buon esempio».

I bimbi presenti nelle carceri sono figli di mamme per metà italiane e per metà straniere, più o meno: le prime sono 27, le seconde 25. Dopo quello che è successo un coro si leva in difesa dei più piccoli: «Sono troppi i bambini che continuano a vivere dietro le sbarre», denuncia Giovanni Paolo Ramonda, che è il presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII. Anche secondo lui la soluzione sono le case-famiglia: «Gli Icam sono certamente una soluzione intermedia, ma non rispondono al bisogno fondamenta­le di un bambino di crescere in un ambiente familiare, con le stesse opportunit­à degli altri suoi coetanei. Per questo servono le case-famiglia, tutti gli psicologi concordano che i primi tre anni di vita del bambino sono fondamenta­li per la sua crescita equilibrat­a». Sono strutture non vigilate, da dove è possibile fuggire. «Ma le madri non lo fanno mai».

Case famiglia

Prevedono per i bimbi accoglienz­a in ambienti famigliari, ma sono solo due in tutta Italia

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