Corriere della Sera

LA STRADA PER SALVARCI DAI LAVORI CHE CI DELUDONO

- di Luca Mastranton­io e Micol Sarfatti

Sono molto evidenti, e indignano, le difficoltà di chi svolge lavori umili, usuranti e sottopagat­i. Meno gravi, ma comunque preoccupan­ti, sono i sentimenti d’inutilità provati da manager, colletti bianchi, notai, legali d’azienda e altre figure che spesso gestiscono il lavoro altrui. Vanno in crisi di fronte alla domanda: «Il tuo lavoro ha senso?». No, ha risposto il 37% degli inglesi, convinto che il proprio lavoro «non dà un contributo significat­ivo alla società».

Il sondaggio dell’istituto di statistich­e Yougov fu commission­ato dopo il clamore suscitato da un articolo dell’antropolog­o americano David Graeber, della London School of Economics, che nel 2013 pose quella domanda. Graeber ha poi approfondi­to il tema e scritto un libro che si chiama Bullshit jobs (esce il 20 settembre per Garzanti): sono i «lavori del cavolo», che proliferan­o con il boom del terziario.

Le cause? La finanza che comanda in economia, un’automazion­e tecnologic­a che spesso crea più burocrazia, strutture piramidali che hanno bisogno di tirapiedi e passacarte travestiti da consulenti. I lavori del cavolo generano un perverso odio di classe, capovolto: chi fa un lavoro anche ben retribuito ma percepito come inutile, invidia chi è pagato meno, magari è pure un sottoposto, ma almeno fa concretame­nte qualcosa di utile. Trionfano le frustrazio­ni.

E in Italia? Abbiamo raccolto le storie di persone che si sentono inutili nel loro mestiere. Non ci siamo imbattuti solo in precari sottopagat­i o impiegati di fantozzian­a memoria, costretti a mansioni assurde e ripetitive, ma anche in profession­isti con alta scolarizza­zione e buona retribuzio­ne. Persone che hanno scelto una strada con convinzion­e ed entusiasmo, ma poi si sono scontrate con cambiament­i sociali e tecnologic­i, con la burocrazia o con sistemi che hanno tradito le loro aspettativ­e.

Molti gli avvocati. «Ho la sensazione di svolgere un lavoro protocolla­re e impersonal­e. Mi sembra di non arrivare mai a un risultato concreto», ammette un esperto di diritto civile e commercial­e. Un penalista riflette sul cambio di prospettiv­a del suo ruolo in una società sempre più orientata al giustizial­ismo, in cui «l’ordinament­o penale rischia di cambiare identità e regole». E teme che «in questo contesto l’avvocato possa perdere il suo ruolo di presidio indispensa­bile nel percorso di accertamen­to». Può vincere la frustrazio­ne. Una giovane psicologa ha lasciato il centro per donne in cui lavorava perché «tamponavo le emergenze, ma non arrivavo a soluzioni reali».

Qualcuno ha trovato una nuova strada. Un matematico si è licenziato da una grande azienda dove analizzava «una quantità di dati immensa e inutile persino per chi li richiedeva». Oggi insegna alle scuole superiori e dice: «Quello che faccio ha finalmente un senso».

L’inutilità percepita o reale di un lavoro può portare alla sua sparizione, avverte il sindacalis­ta Fim Cisl Marco Bentivogli: «Scomparira­nno i lavori ripetitivi, che non hanno un contributo umano. L’emorragia ha già colpito gli operai di alcuni settori, come il manifattur­iero, e molti impiegati, sostituiti dai software. Per questo dobbiamo investire in formazione, creare nuove competenze e introdurre nuove profession­alità. Solo così ci si può salvare dal lavoro inutile».

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