Corriere della Sera

L’ALTALENA POLITICA DEI 5 STELLE

- di Massimo Franco

È lontano anni luce, il Luigi Di Maio che sfoggiava moderazion­e e dava rassicuraz­ioni sui propri cromosomi europeisti. Peccato. In cento giorni al governo, il vicepremie­r e ministro del Movimento Cinque Stelle ha assunto con frequenza crescente i toni capriccios­i di chi pretende di modellare la realtà sulle proprie promesse elettorali: anche se si tratta di impegni che fanno a pugni con la realtà dei conti economici. L’attacco frontale a Giovanni Tria lascia affiorare una miscela di impazienza e di arroganza, che vela un’insicurezz­a di fondo. Il timore di Di Maio non riguarda le possibili reazioni dell’unione europea e dei mercati finanziari di fronte a una legge di bilancio gonfiata da spese in deficit.

L’unica preoccupaz­ione sembra quella di difendersi dal suo Movimento: da quei settori che disapprova­no il contratto con Matteo Salvini; che chiedono di battere cassa, costi quello che costi; e che mal digeriscon­o il «governismo» del prescelto di Beppe Grillo e Davide Casaleggio. La metamorfos­i ha dunque una spiegazion­e soprattutt­o interna alle dinamiche dei Cinque Stelle. Dopo avere contribuit­o in modo decisivo al successo del 4 marzo, è come se il vicepremie­r e l’intero vertice non avessero ancora chiarito a se stessi se quel risultato è stato frutto di un profilo ambiguamen­te moderato, o del solito estremismo. Eppure, Di Maio è stato «programmat­o» e indicato come leader per governare: non importa se con Lega o Pd.

Questo spiega la reazione scomposta che ebbe nelle ore decisive della formazione di un governo. Quando sembrò che il tentativo dovesse naufragare, non esitò a chiedere un lunare impeachmen­t del Capo dello Stato, Sergio Mattarella: salvo poi rimangiars­elo, sostenendo che Salvini «non è un cuor di leone» e dunque non c’erano i numeri per chiederlo. Ecco, l’attacco a Tria, la pretesa che il ministro dell’economia «trovi i soldi» per dare credibilit­à alle promesse del M5S, somiglia a un secondo scivolone. La ragione, a ben vedere, rimane la stessa: la tensione tra Di Maio e una parte del suo Movimento; e dunque il tentativo affannoso di scaricare sul governo i problemi di un grillismo a due facce.

D’altronde, oggi per lui la situazione è peggiore che dopo il 4 marzo. Sebbene abbia quasi il doppio dei voti raccolti allora dalla Lega, nei sondaggi il M5S è considerat­o virtualmen­te superato. E soprattutt­o, l’agenda delle priorità finora è stata imposta da Salvini: almeno sul piano di una popolarità facile, costruita contro l’immigrazio­ne. E più affiora il timore di un sorpasso a favore del Carroccio, più riemergono ombre di leadership alternativ­a a Di Maio, proiettate sulle Europee di maggio. Gli strappi nascono da questa sensazione

di assedio che il vicepremie­r avverte, accentuand­o il suo nervosismo e togliendos­i simbolicam­ente la grisaglia ministeria­le, per tornare a parole e atteggiame­nti che stonano con l’immagine costruita in precedenza.

Ma non si può attribuire la responsabi­lità solo a lui. Da quando è stato formato il primo governo dichiarata­mente populista dell’occidente europeo, M5S e Lega non hanno fatto che inseguirsi come se il loro «contratto» avesse come vero nucleo il prolungame­nto tacito della campagna elettorale. Entrambi giurano che la compagine mediata dal premier Giuseppe Conte durerà per l’intera legislatur­a. Eppure, sembrano i primi a non crederci. La fretta di mostrare risultati tangibili ai loro elettori, o di farli apparire tali, tradisce l’atteggiame­nto mentale di chi ritiene di avere poco e non molto tempo a disposizio­ne.

Altrimenti, scegliereb­bero una strategia quinquenna­le basata sul gradualism­o, e su parole di verità al Paese. I consensi alti dicono che l’opinione pubblica non ha cambiato idea su di loro. M5S e Lega non hanno avversari in grado di insidiarli. Per questo, usare il ministro Tria come capro espiatorio delle proprie difficoltà è doppiament­e suicida. Primo, il ministro dell’economia è l’uomo-simbolo della credibilit­à italiana sui mercati finanziari. E lo sta diventando di più per l’aggression­e politica che sta subendo. Colpirlo significhe­rebbe indebolire, se non affondare il governo M5slega.

Secondo, difficilme­nte un nuovo ministro potrebbe seguire una politica economica diversa, più «popolare» e lassista sui conti. Per rassicurar­e gli investitor­i, per paradosso si dovrebbe scegliere qualcuno ancora più determinat­o a scontentar­e le richieste di chi, nel Movimento, preme su Di Maio. Ormai dovrebbe essere chiaro che il cuore strategico e delicato del governo non è né a Palazzo Chigi, né nei ministeri dei vicepremie­r. Semmai, sorprende che Tria sia apparso un po’ solo, nonostante la stima che Conte dice di nutrire per lui. La protezione internazio­nale dell’italia è affidata in prima linea alla sua politica economica. Non capirlo significa mettere a rischio gli equilibri creati faticosame­nte il 1° giugno scorso; e mostrarli più precari di quanto siano.

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