LA PARTITA DEI MIGRANTI SI DEVE GIOCARE SUL LAVORO
Emergenza stranieri Il decreto che il ministro Salvini prepara sta suscitando attacchi per alcune durezze forse necessarie e scarsa attenzione sulle vere criticità
L a farsa dei tunisini liberati a Fiumicino e mandati a zonzo per l’italia — causa guasto all’aereo che doveva rimpatriarli — è solo l’ultima, grottesca prova d’un sistema allo sbando. Forte di sondaggi netti (almeno un italiano su due vuole i porti chiusi) Matteo Salvini si prepara a stringerne i bulloni, con un decreto sui migranti che, prima ancora d’essere emanato, sta suscitando attacchi per alcune durezze forse necessarie e scarsa attenzione sulle sue vere criticità.
La novità più indigesta per l’opposizione di sinistra è la fine della protezione umanitaria così come la conosciamo: in effetti, un unicum italiano, che l’anno scorso ha concesso la permanenza sul territorio nel 28% dei casi a fronte del 7% di asili politici e del 15% di protezione sussidiaria. E’ piuttosto evidente che l’istituto sia stato assai dilatato da commissioni e questure; può apparire perciò ragionevole la tipizzazione dei casi prefigurata dal decreto: permessi di soggiorno particolari per vittime di violenza domestica o grave sfruttamento lavorativo, per chi ha bisogno di cure mediche, per chi proviene da Paesi sotto calamità naturale.
Nei Cie, oggi Cpr, i centri di permanenza per il rimpatrio, si resterà più a lungo: da 90 giorni si passa a 180, per dare tempo a accertamenti e valutazioni (anche la Francia non certo sovranista di Macron si è mossa del resto verso il prolungamento delle detenzioni amministrative). Se ne faranno di nuovi o si amplieranno i Cpr esistenti: Marco Minniti ne chiedeva uno per Regione prima di essere ostracizzato dalla sua stessa parte politica. Difficile negare anche da questo punto di vista la necessità dell’intervento se, solo restando ai tunisini, di 3.515 irregolari rintracciati quest’anno ben 1.703 hanno ignorato il foglio di via come carta straccia. Quanto alla pur osteggiata ipotesi di tenere gli stranieri in attesa del volo di rimpatrio anche in strutture diverse dai Cpr, negli aeroporti, basti dire che se questa norma fosse stata in vigore la farsa di Fiumicino si sarebbe evitata.
Il decreto presenta però non pochi problemi seri. In Italia abbiamo 600 mila irregolari (di cui con molta leggerezza Salvini ha promesso l’espulsione) e servono senza dubbio luoghi dove contenerli fino a chiarirne identità e status. Ma puntare «sulla interlocuzione con le Regioni» per aumentare il numero dei Cpr, già sapendo che quelle risponderanno picche come fecero con Minniti, è prepararsi un alibi per il fallimento (oggi la capienza dei Cpr è risibile, i tunisini di Fiumicino sono stati liberati anche per mancanza di posti). Inoltre la riduzione dell’accoglienza negli Sprar solo a chi è già titolare di protezione internazionale o ai minori non accompagnati (dunque neppure per i casi tipizzati della ex umanitaria) renderà residuali gli Sprar, finora dimostratisi il miglior sistema d’integrazione, basandosi su piccoli insediamenti gestiti dai Comuni, e finirà per gonfiare i Cas, proprio quei centri straordinari delle cooperative di cui Salvini stesso dice tutto il male possibile. Andrebbe specificato il destino di chi dagli Spar dovesse fuoriuscire violando il contratto d’accoglienza (il caso di Innocent Oseghale a Macerata per capirci): non a spasso per la città ma in un centro di rimpatrio. E reso obbligatorio il sistema Sprar per i nostri ottomila Comuni.
La vera partita però si gioca (si dovrebbe) sul lavoro. E sulla trasformazione, in presenza di contratti verificati, di qualsiasi forma di protezione in permesso di lavoro (dunque anche la ex umanitaria). Sarebbe necessario (ma non se ne parla) per sanare casi di palese ingiustizia. E utile: per non sprecare risorse.
Abbiamo bisogno di lavoratori stranieri (sbagliano i sovranisti a negarlo o a immaginare le donne italiane come nuove fattrici di prole in stile Ventennio) e di qualità: quella dei nostri immigrati è la seconda peggiore d’europa e c’è un perché. Entrare per via legale in Italia è praticamente impossibile. Come gli americani col proibizionismo consegnarono il mercato degli alcolici ai bootleggers, così noi sbarrando gli accessi al nostro mercato del lavoro abbiamo consegnato le migrazioni agli scafisti. Stefano Allievi («Immigrazione, cambiare tutto», Laterza) sostiene, crediamo a ragione, che vadano riaperti i canali regolari d’accesso. Tramite accordi con i Paesi di partenza; accordi, aggiungeremmo, che potrebbero collegarsi a quelli per il rimpatrio, visto che darebbero a quei Paesi sollievo in termini di crescita per la loro gioventù migliore, soldi e commesse che tornerebbero poi in patria, coinvolgendoli nel filtro dei flussi. Si confondono ancora emergenza con struttura, rifugiati con lavoratori. Un’opposizione viva e non ideologica avrebbe un’autostrada per sfidare il governo nel concreto. Per Salvini la migrazione resta solo un problema di polizia. Si dirà: ovvio, è il ministro dell’interno. Occorrerebbe allora, per inquadrarla in una più ampia prospettiva politica ed economica, un presidente del Consiglio portatore di una visione meno angusta: quella generale dell’esecutivo. Ma, come sappiamo, questa è un’altra storia.