UN AMERICANO A ROMA
LE NOTTI DI BERNSTEIN A PARLARE DI MUSICAL E DELLA «BOHÈME», «COME IL MIO VILLAGE»
La musica è sempre poesia finché nasce spontaneamente dai nostri cuori Leonard Bernstein
L’appuntamento La stagione di Santa Cecilia si apre con «West Side Story» diretto da Pappano nel centenario della nascita del grande direttore e compositore. I ricordi del nostro cronista, testimone dei suoi intensi soggiorni capitolini
Leonard Bernstein tenne il suo primo concerto romano il 5 dicembre 1948. Aveva trent’anni. Uno dei suoi tratti principali, l’eclettismo, si ritrovò nel programma della serata: un Concerto di Vivaldi, la Sinfonia n. 2 di Schumann, il Concerto in sol di Ravel (qui fu direttore e pianista) e un suo brano, la suite dal balletto Fancy Fee. In totale, fino al 1989, a Roma saranno 22 le sue presenze sul podio di Orchestra e Coro dell’accademia di Santa Cecilia, e una su quello della London Symphony Orchestra. Il 12 ottobre, per celebrare il centenario della nascita di Bernstein, la stagione si apre con West Side Story, diretta da Antonio Pappano.
Ci sono ancora, nella compagine romana, musicisti che suonarono con il direttore dalla testa leonina. Daniele Ciccolini, violinista, ricorda quando, allo stage per giovani bacchette che Lenny tenne su proposta dell’accademia, non si presentò il suo vicino di leggìo: «Bernstein si sedette accanto a me e cominciò a girare lui le pagine, emanando un senso di gioia e di rispetto per ognuno di noi».
Antonio Ruggeri, tromba, ebbe da lui una foto autografata così: «Al mio caro collega». Francesco Storino, violoncello, ricorda l’orchestra levarsi in piedi per applaudirlo dopo il silenzio totale che avvolge il finale del Preludio à l’après-midi d’un faune. Quando Bernstein con la sua chioma bianca gli passò accanto, Storino disse: «Maestro, lei è il number 1. Lui mi rispose, no, questa orchestra è number 1».
Bernstein ne diventò presidente onorario, su invito del leggendario presidente dell’accademia Francesco Siciliani, che era nottambulo, come Lenny. Nella sua casa a Lungotevere Flaminio riuniva alcuni amici, ebbi il privilegio, giovane cronista del Corriere, di far parte della comitiva. Bernstein aveva l’abitudine di sedersi al contrario, tenendo rigorosamente in mano il bicchiere di whisky, sembrava un cow-boy. Si lasciava andare a aneddoti e ricordi che riunivano i tasselli del suo misterioso, affascinante Far West artistico. Come disse Arthur Rubinstein, era il più grande pianista tra i direttori, il più grande direttore tra i compositori, il più grande compositore tra i pianisti. Una figura leonardesca, rinascimentale. Diceva le parole più vere con semplicità: «La musica è sempre poesia finché nasce spontaneamente dai nostri cuori». Oppure: «Esiste solo buona musica e cattiva musica».
Parlava di West Side Story, di come nell’ambiente lo si giudicasse un musical mentre lui la considerava un’opera lirica; affiorava, a tratti, mai in maniera diretta però, il suo cruccio per le stroncature in America di tanti suoi pezzi: «Sono abituato a grandinate di critiche», diceva, ricordando l’accoglienza alla sua Messa per l’inaugurazione, nel 1971, del Kennedy Center. Fu ritenuto un lavoro fuori luogo, contro la politica di Nixon (che non andò all’apertura), una Messa che non è una Messa cattolica, chitarra, ballerini e coro tipo Broadway, dove la fratellanza vince sul caos. Era autoironico: una volta rivelò di essersi proposto come direttore stabile della più prestigiosa orchestra del mondo, i Wiener Philharmoniker (organo autogestito), il portavoce dei Filarmonici si aprì a un sorriso tremendo: «Maestro, quando viene a trovarci ci fa sempre piacere». Lenny rideva di gusto alla porta sbattuta in faccia, con un’elegante perfidia che sembrava uscita da una pagina di Thomas Bernhard.
E poi, in quelle conversazioni notturne romane, parlava di La bohème, che nel 1987 diresse a Roma con una compagnia di giovani cantanti americani: «Devono incarnarsi nel modo più totale in quei personaggi che ricordano la mia gioventù al Village di New York; in uno spazio ristretto noi, artisti squattrinati, discutevamo, vivevamo, avevamo mille idee e nemmeno un cent, ubriacandoci tutte le sere, e il mattino seguente pronti a riacquistare velocemente le forze». Puccini fu una delle sue rare incursioni operistiche, una delle sue esperienze più importanti (Bernstein chiese a Pappano di fargli da assistente, «ma all’epoca la- voravo per Barenboim e la cosa non andò in porto»), documentata nel cd di Deutsche Grammophon che per l’anniversario ha appena pubblicato l’integrale delle sue composizioni, compreso il concerto ceciliano dedicato a Debussy, ultima sua incisione.
Non si percepiva però, in quell’americano a Roma, l’altra sua metà: l’omosessualità che mise fine al suo matrimonio (il piccolo démone lo chiamava lui), l’abbandono della famiglia, la doppia vita, poi tornò dalla moglie che si era ammalata di cancro. Mancò il tempo di ricucire il rapporto, e fu dilaniato dai sensi di colpa e dal dolore, che solo in parte trasfigurò nella musica. La duplice anima dell’uomo che dubita di se stesso. «La musica ci rende persone migliori», diceva questo artista che la vita la mangiava a morsi.
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