Il merito di chiudere la «querelle» sul Barocco
Un tempo, le stagioni delle grandi orchestre sinfoniche raramente parlavano il linguaggio del Barocco. Se lo facevano, era per rileggerne solo i massimi capolavori e secondo uno stile che oggi consideriamo storia della ricezione: più generalista che idiomatico. Dagli anni Ottanta, l’ascesa delle esecuzioni «filologiche», pur con tutti i dubbi, i pionierismi esasperati e iconoclasti che l’hanno accompagnata, ha generato la riemersione di un repertorio immenso, ma ha anche alzato steccati. A mano a mano che il regno dei «filologi» si allargava, da Bach al primo Haydn, su su fino a Beethoven e Berlioz, gli «altri» si ritiravano nel loro mondo. È la fine, dicevano alcuni, adesso metteranno il basso continuo anche a Wagner... Per fortuna, oggi le contese territoriali volgono al tramonto e la stagione di Santa Cecilia, come anche altre illustri, è alfiere del mutamento. Da un lato, ha sviluppato, e dall’interno, un suo «strumento» per l’antico, l’accademia Barocca di Santa Cecilia (in scena il 30 gennaio con Federico Maria Sardelli e i Concerti Grossi op. 3 di Händel); dall’altro, inserisce nel suo cartellone fior fior di appuntamenti con la musica del ‘700, affidati a maestri che a questo repertorio hanno dedicato una vita. Giovanni Antonini avanza nella grandiosa integrale delle Sinfonie di Haydn, Marc Minkowski accosta Gluck e Rameau; Trevor Pinnock in trio esalta Bach, Ton Koopman affronta la Grande Messa in do minore di Mozart. È il segno di un’inclusione che a tutti giova, pubblico e musicisti. E il fatto che sia inclusione di «specialisti» non preclude qui altre «libertà» interpretative. Pappano ha già diretto le Passioni di Bach. Se domani, ad esempio, le dirigesse Temirkanov, non correremmo tutti ad ascoltarlo?
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