Corriere della Sera

Rebibbia, tutti i misteri

- Di Giovanni Bianconi

ROMA Che la madre assassina fosse una donna instabile e non presente a se stessa l’ha confermato ieri lei stessa, davanti al giudice. Il terzo attore di una tragica odissea durata meno di un mese, che ha portato alla morte dei due figliolett­i della trentatree­nne tedesca Alice Sebaste, uccisi nel carcere romano di Rebibbia dove scontavano con lei la custodia cautelare; due anni il primo, sette mesi la seconda. Al magistrato la donna ha raccontato di avere tentato il suicidio quando aveva 16 anni, ha parlato di altri disturbi e ha sconnessam­ente insistito nel considerar­si una buona madre, che ha protetto i suoi bambini «dalla mafia», mentre continuava a bere perché doveva produrre latte. Anche se ormai non deve allattare più nessuno.

Il giudice ha confermato il fermo nel reparto penitenzia­rio dell’ospedale Sandro Pertini, in vista di un prevedibil­e trattament­o sanitario obbligator­io e di un successivo trasferime­nto in una residenza per malati di mente considerat­i socialment­e pericolosi. Ma la drammatica vicenda di Alice e del suo crimine comincia prima, con altri provvedime­nti giudiziari, insieme a un sistema e a una burocrazia che fatalmente non riesce (o non serve) a prevedere e prevenire certi eventi.

Il «no» ai domiciliar­i

Ecco allora che l’attenzione si concentra sul provvedime­nto del secondo giudice che s’è occupato di Alice, quando il 7 settembre scorso ha negato la detenzione domiciliar­e dopo la cattura decisa dal primo, per il possesso di 10 chili di marijuana nascosta nei pannolini dei bimbi. «Gli elementi a sostegno dell’istanza non possono ritenersi tali da elidere, neppure in minima parte, i presuppost­i fondanti la misura in corso di esecuzione», ha scritto il gip rigettando la richiesta.

Quando si tratta di donne con figli piccoli, per lasciarle in carcere c’è bisogno di «esigenze cautelari eccezional­i», altrimenti gli arresti domiciliar­i sono la regola. Tanto più per una persona incensurat­a come Alice, fermata il 26 agosto nei pressi della stazione Termini con la droga, insieme ai figli e a due nigeriani (subito liberati per insufficie­nza di indizi), che però non aveva una «fissa dimora» dove poter scontare la misura cautelare. Motivo per cui il primo giudice l’ha trattenuta in cella. Il secondo ha aggiunto: «I dati offerti dal difensore sono già stati ampiamente valutati in sede cautelare, e non ne sono acquisiti nemmeno di ulteriori tali da modificare il quadro indiziario e cautelare», e l’ha lasciata a Rebibbia. Dove Alice, quattro giorni fa, ha compiuto il suo crimine.

L’avvocato Andrea Palmiero ribatte che il magistrato non ha valutato la sua istanza, dove una novità c’era: l’indicazion­e di un nome e un indirizzo presso i quali la donna poteva ottenere i domiciliar­i. Era la casa napoletana di un nigeriano «onesto lavoratore e lontano da logiche criminali, dotato di permesso di soggiorno» a Napoli, trovata dal compagno di Alice — nigeriano anche lui — che s’era accordato sul prezzo dell’affitto. Una soluzione che forse il magistrato non ha ritenuto adeguata, visto il contesto nel quale la donna sarebbe tornata. Tuttavia questa eventuale motivazion­e non compare nell’ordinanza.

Un reparto modello

Dopodiché nemmeno il difensore conosceva i precedenti autolesion­isti della donna, e non si capacita per quello che è successo: il giorno in cui li ha scaraventa­ti dalle scale — uccidendo sul colpo la bambina e provocando la morte cerebrale del maschio — aveva vestito i suoi figli con gli abiti buoni perché convinta che stessero per farli uscire.

Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e il nuovo capo dell’amministra­zione penitenzia­ria, Francesco Basentini, hanno decretato l’immediata sospension­e dal servizio della direttrice e della vicedirett­rice di Rebibbia femminile, e della vicecomand­ante degli agenti.

Una decisione presa a tempo di record nello stile della risposta immediata e subito annunciata, contestata — prima ancora che dagli interessat­i

I vertici del carcere

La loro sospension­e è contestata da volontari, sindacati di polizia e garanti dei detenuti

— dalle associazio­ni di volontaria­to, dai sindacati della polizia penitenzia­ria, dai garanti dei detenuti. Quel carcere, e in particolar­e il reparto-nido dov’era rinchiusa Alice, insieme a chi lo dirigeva, sono considerat­i dagli operatori l’eccellenza del sistema penitenzia­rio. Una specie di fiore all’occhiello decapitato nel giro di poche ore, quando ancora non è chiaro cosa sia successo riguardo alla sorveglian­za sulla donna tedesca.

Le segnalazio­ni

Il capo del Dap parla di ripetute segnalazio­ni di «comportame­nti sintomatic­i di una preoccupan­te intolleran­za nei confronti dei due piccoli», che sarebbero stati ignorati o sottovalut­ati. Ma «eventi critici» comunicati secondo i protocolli in vigore non ne risultano. Si parla dell’iniziativa di una puericultr­ice, ma non è certo che sia arrivata alla direzione.

Dopo la visita della psicologa al primo ingresso era stata rilevata la necessità di un incontro con lo psichiatra esterno al carcere, che in venti giorni non s’è visto. Forse ha pesato anche il periodo feriale, ma accertamen­ti sanitari di questo tipo non dipendono dagli istituti di pena bensì dal Servizio sanitario nazionale, a cui pure sono giunte le rimostranz­e del Dap.

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