Corriere della Sera

Il genocidio del popolo armeno e i miei 57 anni di silenzio

- Di Stefano Lorenzetto

Quando qualche settimana fa ha visto Sergio Mattarella scendere dalla scaletta dell’aereo a Erevan, capitale dell’armenia, alla scrittrice Antonia Arslan, 80 anni, s’è allargato il cuore: «Era la prima volta di un presidente della Repubblica nella terra dei miei antenati. Come armena italiana, mi sono sentita finalmente riconosciu­ta. E anche come armena veneta. Pochi sanno che la Serenissim­a si salvò dalla bancarotta grazie a 40.000 ducati d’oro prestati dagli Scerimania­n, che nel 1612 avevano aperto una sede a Venezia, terminale dei commerci fin dall’anno 1000. Il che spiega perché nel 1717 il doge Giovanni Corner concesse in perpetuo l’isola di San Lazzaro degli Armeni al monaco cristiano Mechitar».

Gli Arslan d’italia discendono da Yerwant Arslanian, pioniere dell’otorinolar­ingoiatria, nato nel 1865 a Kharpert e giunto nel nostro Paese a soli 15 anni. La sua passione per gli studi lo salvò dal Metz Yeghérn, il Grande crimine, il genocidio del suo popolo a opera dei turchi, iniziato nel 1894, culminato nel 1915 e proseguito fino al 1922. «Era mio nonno. Nel 1923 ottenne dallo stato civile di troncare le ultime tre lettere del cognome. Lo fece per angoscia, per mimetizzar­si. Una precauzion­e comprensib­ile: in quella fornace bruciarono le vite di almeno 25 o 30 parenti».

La nipote Antonia non riesce a spiegarsi perché ha atteso quasi mezzo secolo prima di dare corpo, nel romanzo La masseria delle allodole, al ricordo di quell’immane tragedia che segnò la storia della sua famiglia, né come sia stato possibile che il libro abbia totalizzat­o sette edizioni in soli due mesi nel 2004 e da allora sia già stato ristampato ben 37 volte. «Se penso che non doveva nemmeno uscire...».

Tentarono di boicottarl­o?

«No, la colpa fu mia. Anche se ho sempre insegnato Letteratur­a all’università di Padova, i libri non erano il mio mestiere, per cui mi affidai a un agente letterario. Uno dei più famosi, non mi chieda il nome. Gli mandai il manoscritt­o a settembre del 2002. A Natale non l’aveva ancora visionato. La mia amica Siobhan Nash-marshall, docente di Filosofia teoretica a New York, che ospitai per Capodanno, era indignata. Volle telefonarg­li. “Ma signora! È in lettura”, si stizzì lui. Ad aprile andai a trovare in America la dantista Teodolinda Barolini, capo del dipartimen­to di italiano della Columbia University. “E il tuo romanzo?”, mi chiese. Arrossii di vergogna».

Non stento a crederlo.

«Fu lei a trovarmi un altro agente. Io telefonai al primo, dicendogli: in nove mesi si fa un bambino, penso che bastino anche per un libro. Sentenziò: “La trama è debole”. Stavo quasi per crederci, se i registi Paolo e Vittorio Taviani, dopo che fu pubblicato, non mi avessero cercato: “Non abbiamo mai letto niente di più potente! Vogliamo farci un film”. Adesso posso dirlo: quell’agente, secondo me, nemmeno lo sfogliò».

«La masseria delle allodole» uscì quando lei aveva 66 anni. Perché non avvertì il bisogno di scriverlo prima?

«Non lo so, me lo chiedo spesso. Mi limitavo a comporre poesie sulla Guerra dei trent’anni, pensi un po’. All’improvviso, ebbi la percezione che dovevo parlare dell’olocausto armeno prima che i vecchi sopravviss­uti morissero. Una necessità scaturita dai precordi».

La sua fonte fu nonno Yerwant.

«Sì, un dono che mi fece per

i miei 9 anni. Poi non ne parlò mai più. Era il 1947. “Sto per andarmene, quindi devi sapere”, mi disse. Infatti morì dopo pochi mesi. Fu mio nonno ad accogliere in Italia i tre orfani del fratello Sempad, le femmine Arussiag ed Henriette e il maschio Nubar, che scampò al massacro di tutti i maschi perché la madre Shushanig lo aveva travestito da femminucci­a. Anche mio zio Nubar divenne otorinolar­ingoiatra, a Genova».

Come mai suo nonno affidò proprio a lei i suoi atroci ricordi?

«Ero ammalata, una febbre misteriosa che ogni 15 giorni aumentava. Il nonno dovette farmi 36 punture di penicillin­a, molto dolorose, in cambio di un premio: 50 lire l’una. Se devo morire, ne voglio 100, replicai. Ci accordammo per 75. Mi portò in convalesce­nza sulle Dolomiti, a Susin di Sospirolo. E lì, sotto i glicini di un albergo liberty, cominciò a raccontare, a partire dalla madre Iskuhi, che lo aveva partorito a 16 anni e che morì a 19 dando alla luce Sempad. Ricordava ancora il profumo di pesca delle sue gote».

Non la sconvolser­o i racconti della carneficin­a?

«No, neppure quando mi spiegò che il fratello Sempad, farmacista, era stato decapitato dai soldati turchi e la sua testa gettata in grembo alla moglie Shushanig. Mi pareva di leggere l’encicloped­ia della fiaba, che mi avevano regalato. Ero onorata dalla sua fiducia e tranquilli­zzata dal distacco con cui narrava gli eventi. Avevo già visto gli orrori della Seconda guerra mondiale, mia madre alle prese con i nazisti, le mitragliat­e che mi fecero finire in un fosso, i due bombardame­nti di Padova. La vita del nonno mi sembrava un romanzo d’appendice».

Immagino, catapultat­o dall’anatolia a Venezia appena quindicenn­e.

«Un viaggio mitologico. Suo padre lo affidò a dei banditi, dando loro un gruzzolo in banconote tagliate a metà: ebbero l’altra parte solo quando il figlio gli scrisse dal Collegio Armeno. A 18 anni nonno Yerwant rifiutò i sussidi paterni. Si laureò in Medicina a Padova. Per mantenersi, fece l’infermiere durante un’epidemia di colera. Andò a studiare chirurgia a Parigi, dove, non avendo soldi, mangiava solo albicocche secche. Incontro ancora anziani che da piccoli furono operati da lui. Non esistendo l’anestesia, la tecnica era semplice: uno sberlone del papà e uno della mamma, in contempora­nea, il bimbo

«La masseria delle allodole» non doveva uscire. «Trama debole» disse l’agente letterario. La Turchia di Erdogan nella Ue? Non mi fido

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